Abruzzo Elzeviri
22 Giugno 2025
QUANDO SULLE NOSTRE MONTAGNE LA PRODUZIONE COLTA SI CONIUGO’ CON LA CREATIVITA’ DEI POETI PASTORI, ARTIGIANI E STORIOGRAFI
Nino Chiocchio
II puntata - Nel 1447 il re Alfonso I d’Aragona aveva emanato la “Regia Prammatica pergamena per la mena delle pecore in Puglia” e, grazie all’esperienza fatta nelle mesetas spagnole, aveva cercato di disciplinare le varie e spesso controverse leggi agrarie latine sulle calles; peraltro non risolse problemi come quello delle belve e dei “latrones” che vennero sostituiti da feudatari indisciplinati e ingordi. Purtroppo le turbative dei feudatari non cessarono, se ancora nel 1594, come più sopra ho avuto modo di rilevare, qualche locato scannese intraprese le iniziative dei pastori cocullesi. Posso concludere questa digressione che la vera civiltà dei tratturi cominciò a splendere ai primi del ‘600, fermo restando che incombevano sempre i pericoli di viaggi lunghi e stressanti nonché quelli delle intemperie e delle belve e dei banditi, che peraltro preoccuparono un po’ di meno per gli scudi pastorali rappresentati dalle mazze ferrate, dalle armi sempre più raffinate e dai collari robusti dei cani-pastore.
Ormai, protetti anche dall’usbergo della religione, i pastori si introdussero nel clima e nella realtà delle istituzioni religiose.
Benedetto di Virgilio (1600-1667) era un pastore nato a Villetta Barrea da una famiglia povera, dedita alla pastorizia che fu il suo mondo soprattutto quando cominciò a seguire i lunghi tragitti del tratturo fino alla Puglia; in quel periodo imparò a leggere e a scrivere sfogliando i classici che gli aveva letto qualche collega più anziano e già introdotto nel mondo epico dei paladini e del transumante. Arrivato poi in una masseria tenuta dai Gesuiti, trovò lavoro presso quei Padri e raffinò il patrimonio culturale della sua bisaccia in virtù dell’insegnamento di quei religiosi. Non fu più “bifolco” – come era stato definito – fino al punto di essere apprezzato anche dal Preposito Generale dei Gesuiti Vincenzo Carafa, parente del futuro papa Paolo IV (Giovanni Pietro della Stadera) il quale, già vescovo di Chieti, fu cofondatore dell’Ordine dei Chierici Teatini i quali ebbero dall’ultima contessa (1) di Celano Piccolomini il palazzo romano di papa Pio II della stessa schiatta (palazzo poi divenuto la chiesa di S. Andrea della Valle).
Benedetto finì alla Corte pontificia, in cui suscitò elogi e da cui ricevette onorificenze. Continuò a scrivere nel clima di quell’ambiente con lavori in cui si riflesse lo stile fra il religioso ed il cortigiano.
Vorrei ricordare, prima di concludere, altri pastori delle nostre montagne che hanno esaltato con varia creatività e con vena naturale e spontanea l’epopea dei tratturi e infine accennerò all’ultimo pastore aravecchiese (abitante dell’ “Aravecchia”, già rione cocullese, ora abbandonato), che forse praticò la transumanza, che si volle soffermare sull’elencazione, nostalgica, delle denominazioni di località da lui frequentate nella campagna circostante.
Il primo a cui voglio riferirmi è Cesidio Gentile che nacque a Pescasseroli nel 1847 e morì a Civitanova del Sannio nel 1914 a causa di una caduta da cavallo, in una solita peregrinazione della transumanza: aveva una memoria tale che lo aiutò molto nei suoi studi di autodidatta e si appassionò alla lettura dei poemi epici che amava ripetere con fervore ai compagni di viaggio. Nei suoi scritti il suo compaesano Benedetto Croce metterà in risalto il compromesso fra il sentimento popolare e la produzione letteraria colta. Lui stesso racconta:
Nacqui a Pescasseroli il 28 giugno 1847. Crebbi colmo di miseria e nell’ignoranza, a motivo che a quei tempi scole elementari non esistevano e, nella scuola privata, mio padre non ebbe il potere di mandarmi. Era un misero pastore […] Di otto ani mi portai al bosco Pirinella a pasturare le pecore, unito a lui. La mamma lo aveva accompagnato fino ai primi alberi del bosco: “piangendo mi baciò/restando ferma”.
Nella capanna dei pastori mi imparai a conoscere le lettere dell’alfabeto e, per istinto di natura ebbi un bel gusto di ascoltare le storielle. Popolari scritte in ottave: i racconti Cavallereschi della Tavola Rotonda mi davano molto da penzare. E così, nella mia idea, aIl mondo ne sarà tutto ammirato /…. pena cominciai a scrivere, scriveva versi ispirati dalla mia fantasia….
Cesidio era soprannominato Jurico, appellativo derivato dal nonno il quale, vissuto anche lui nel mondo degli ovini aveva presunto di fare il veterinario. Il nipote, cioè Cesidio, fu pastore e anche poeta; scrisse numerosi versi, non tutti reperiti, da cui troppo frequentemente traspare la triste vicenda dei momenti attraversati nell’esercizio del suo mestiere.
Più di una volta cadde; ma: Il giorno appresso il padre / mi disse: – O mio figliolo, a me molto mi dole/ il vostro male. / Dobbiamo andare in Puglia / a guadagnarci il pane: / con l’uncinetto in mano / hai da guidare / le pecorelle, dritto / la via dello tratturo…
Tuttavia alternò versi nostalgici come ne “Il pastore di Scanno”: Fa’ che nessun con te si dorma accanto; / ed io, pascolando il bianco armento / sempre all’amore tuo vado pensando / Cara consorte, mettici il talento, cerca d’avere d’onestate il vanto; / rinnova la fedel moglie d’Ulisse, / come il poeta a noi cela descrisse!
Nei primi decenni del Novecento un pastore scultore di Palena, del quale non conosco il nome, lasciò una traccia indelebile nel mondo dell’artigianato realizzando uno specchio (v. foto) in cui riassunse le tradizioni e i simboli del matrimonio: pure qui emerge la vena nostalgica del pastore esiliato, e lontano dagli affetti per nove mesi, per affrontare lo stagionale e duro svernamento… Siamo al vespro della transumanza; anzi, potremmo dire che già il lamento di Jurico per il duro lavoro del pastore povero esprime il rantolo della poetica creata da Alfonso il Magnanimo.
Un pastore cocullese, Mingh’, elevò un grido bellicoso, quasi di reazione, descrivendo una tradizione orale tramandatagli dagli avi: “Si presume che Cocullo fu fondato dalle guarnigioni romane dopo la resa Corfinio. Le vedette di segnalazione erano varie cimase delle montagne di Cocullo Monte Luparo, Pietrafitta, Pietra Palomba, Lagolungo, Castrovalle di Anversa, Montello di San Cosimo-Sulmona. Le segnalazioni si facevano di notte con le torce di fuoco. Noi come testimonianza dell’epoca romana abbiamo la via Valeria che dal lato nord di fossa di Cì scendeva diretta alla zona di Valle Casale, Valle Martina, Intera, Fonde Popimbola, Lo Strano, Sagittario, Bugnara, Campo di fano, Sulmona, Pratola, Corfinio… Io da fossa di Cì nel lato est di detta strada dovevo traversare le fosse, scendevo nella zona Porcarecce, il montello di Goriano Sicoli, Piano di Tavoli (Tavola),…fino a pochi anni fa si conosceva la traccia di detta strada Valeria che scendeva verso Prezza e la piana Peligna. Sulla piana di Tavola oggi ci si è fatto il rimboschimento e questa traccia di strada si nota scomparsa…”
La linea poetica e artigiana (meglio, artistica) si scioglie nell’elegia di Mingh’, forse l’ultimo transumante cocullese il quale, affacciato ad un balcone del piano superiore della sua abitazione, getta uno sguardo sulla campagna e sciorina le località, soprattutto quelle frequentate durante la pastorizia stanziale cesellandole su una pagina di storia patria mentre si deterge con il fazzoletto una lacrima su una guancia.
Note
1 - Il lascito della contessa fu effettuato nella seconda metà del ‘500. La proprietaria aveva restaurato il castello Berardi-Ruggeri nel 1585 come si deduce dalla lapide inserita sul muro esterno del maniero: “PICCOLOMINI RESTAURO’ NEL 1585”; sulla scritta compare un calice che per me è la firma della contessa suora Costanza.

