Edizioni L'Atelier
26 Ottobre 2025
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L'alba dei travetti e il crepuscolo dei travetti
Quarta puntata, La “Lucciola”
Redazione
Enzo pensò che nel panorama offerto dalla ridente cittadina si potesse riassumere l’Abruzzo; e quasi tutte le mattine, per tanto tempo, tornò a provare quella sensazione... Purtroppo non si vive di sensazioni; il sostentamento spirituale mostra tante sfaccettature: le amicizie, ad esempio.
“Legò” con gli amici de “La lucciola”, la trattoria dove mangiava nei primi tempi e dove furono celebrati pomeridiani pseudo-processi, alquanto goliardici. Erano talmente lunghi, quei processi, che si protraevano dalla fine del pranzo al tardo pomeriggio. Fino a quando il diplomatico proprietario decise di chiudere l’esercizio (salvo a riaprirlo dopo alcune settimane). Gli sfrattati migrarono all’albergo “Salus”, lì ebbero come commensale un sacerdote di una certa caratura e trovarono il modo di occuparsi anche di teologia. Gli amici dell’albergo che mangiavano al tavolo di Travetti, eccetto qualche avvicendamento di poco rilievo, prima che arrivasse Giulia erano otto. Giancarlo era il decano, con i suoi trentasei anni di età. Era un ingegnere dell’AGIP, era facoltoso, era un tipo atletico e purtuttavia riusciva a conciliare gli impegni con le esigenze della consorteria (gioco del poker, cenette al litorale...). Lucio era il filosofo della compagnia: malgrado la sua discrezione e la sua riservatezza, grazie alla capacità di adattamento, non disdegnava di partecipare alle imprese della rumorosa “confraternita”; con me aveva pattuito che si dovesse pagare una multa di cinquanta lire qualora fossero stati trattati argomenti inerenti all’ufficio fuori dell’orario canonico. Tonino di Vasto aveva una carica d’ironia non indifferente, forte quasi fino alla dissacrazione; inoltre, quando arrivava il turno suo, era più dispettoso di una scimmia e non ci lasciava nessuno: canticchiava sulle note di un motivetto “western” le Lettere di San Paolo declamate e commentate sapientemente da Lucio. Della brigata facevano parte due giovani di nome Donato. Il primo era una specie di Torquemada impastato di sano laicismo e di goliardia, più colto e più maturo: lui dirigeva i processi celebrati a carico degli amici della “Lucciola” e del “Salus”; particolarmente a carico di quell’anziano gioielliere (spesso gradito commensale insieme alla moglie) che prendeva sul serio le accuse e si arrabbiava fino ...al livello di guardia. L’altro Donato, più giovane, partecipava, ma al confronto degli altri era mite e taciturno (ove si eccettui Lucio, che era più mite ed anche più maturo). Abbastanza più ciarliero di quest’ultimo Donato era Galeazzi, il pittore veneto che improvvisava canore ed intraducibili filastrocche, e che era un gran camminatore; una sera, per un tiro birbone, l’automobile di Giancarlo lo scaricò tre chilometri fuori della città, accanto al Cimitero: arrivò a Chieti, cavalcando il “caval di San Francesco”, quasi contemporaneamente agli amici motorizzati.
Specialmente dopo ch’era sopraggiunta la primavera, spesso, a sera, l’allegra compagnia si recava a gustar pizzette alla Villa comunale, sulla terrazzina della “Casina delle rose”, tra le foglie e il profumo dei tigli. Poi, quando la temperatura si fece più mite, scesero sempre più frequentemente a Francavilla (dove il nostro imparò ad apprezzare i brodetti di mare), a San Vito, a Vasto, a Termoli: tappe obbligate per chi voleva soddisfare le esigenze dei buongustai o semplicemente per consumare pizze, gelati, capricci. Animavano un po’ troppo il “Salus” nelle giornate piovose o in quelle che li teneva impegnati per un maggior carico di lavoro (Ufficio, eccetera...). Era fatale che il direttore dell’albergo si stufasse di loro e prendesse un’iniziativa press’a poco uguale a quella del collega della “Lucciola”; quando lo fece, però, non li trovò impreparati. Crescenzo s’era già trovata una pensione in una buona famiglia ed alcuni amici s’erano fidanzati e poi sposati.
Sulla costa adriatica il nostro imparò a mangiare il pesce: ecco come. In certi pomeriggi Gianfranco e Donato solevano organizzare delle partite a poker. Il gioco del poker presuppone la disponibilità di somme notevoli. Gianfranco e Donato seguirono velleitariamente questi principi: le puntate più francescane corrispondevano a diecimila lire (degli anni 1960); ma c’era un particolare non trascurabile, cioè che i compagnoni erano tutti impiegati e riuscivano appena a vedere le puntate più grosse quando riscuotevano lo stipendio. Insomma non avevano tutti i soldi che si giocavano, ma soltanto i gettoni ad essi corrispondenti. Allora ricorsero ad uno stratagemma: chi, alla fine di ogni giocata, perdeva più milioni, quello avrebbe pagato una cenetta sul mare a tutti i giocatori. Un venerdì toccò a Donato il Torquemada, il quale aveva perso molti milioni ed offrì una cena a base di pesce. A Enzo, nato e cresciuto in montagna, dove il pesce arriva quando già puzza, la pietanza non piaceva. Accettò i maccheroni conditi col sugo della zuppa di mare, perché la pastasciutta gli piaceva troppo, ma per secondo disse che avrebbe preferito una modesta cotoletta; Donato, a quel punto, replicò deciso che avrebbe pagato solamente ciò che aveva ordinato lui; ed Enzo, per non dargliela vinta, non replicò e mangiò tutto mugugnando. A fine pasto si accorse che il pesce era squisito...
I giorni trascorrevano. I corsi si sovrapponevano ai ricorsi: tra pensioni in buona famiglia e fidanzamenti, la simpatica brigata avrebbe pur potuto disgregarsi; per fortuna sfiorò solamente questo rischio. Con Enzo erano rimasti sulla breccia tre o quattro pezzi validissimi oltre a qualche “pezzettino” locale. Ancora, il nostro aveva rinsaldato alcune amicizie e nel frattempo aveva conosciuto quell’ottimo pianista di Pescara che ebbe la bontà di ospitarlo con il suo strumento (Crescenzo continuava a “raschiare” abbastanza bene il violino comprato a Porta Portese) e con i suoi amici per poi accompagnarlo in numerosi concertini pomeridiani.
* Ettore il pianista- Crescenzo conobbe Ettore, l’ospitale pianista, in una fredda mattina di febbraio. Il musicista aveva bisogno di soldi perché la famiglia, di elevata condizione sociale, aveva subito un tracollo economico e a lui erano rimasti la villa in pineta, il pianoforte e propositi suicidi. Quando lo conobbe Travetti era il periodo in cui veniva emanata l’ordinanza sul conferimento degli incarichi al personale docente delle scuole secondarie e Enzo prestava servizio nell’ufficio che doveva dare esecuzione alle pratiche relative. Una mattina nella sua stanza capitò un signore dall’aria smarrita: sciorinò, mostrandoli, i titoli in suo possesso e chiese, fra lo scettico e il perplesso, perché un impiegato del Provveditorato della sua provincia gli aveva detto che quelle carte non servivano a nulla, dal momento che Crescenzo gli assicurava il contrario, cioè che erano molto utili per aspirare ad un incarico d’insegnamento di Musica. Ma certo! Possedeva il diploma di composizione, il diploma di pianoforte, il diploma di abilitazione all’insegnamento: inoltrasse subito la domanda per essere incluso nelle graduatorie provinciali, si facesse autenticare la firma in calce alla stessa e poi facesse pervenire il tutto all’ufficio di Travetti; non aveva alcuna rilevanza il fatto per cui non si trovava nella provincia di residenza, bastava che non presentasse domande altrove. Ettore seguì il consiglio ed all’inizio dell’anno scolastico successivo ebbe la sua brava cattedra di Educazione musicale in una scuola media di Francavilla, a cinque minuti dalla sua abitazione. Fin qui poco o nulla di strano; neanche quando andò a ringraziare Travetti. Avesse estrinsecato la sua gratitudine in forma verbale e concisa! Invece venne a dirgli, tutto felice, che se il “benefattore” non avesse espresso un desiderio, tutti i giorni avrebbe trovato lui, il professore, fuori della porta della sua stanza, al posto dello zerbino. E spiegagli che nessuno gli aveva dato niente, a parte il suggerimento: tutto inutile. Replicava che quando venne la prima volta non era in condizioni economiche tranquille, che era arrivato al bivio, che era stato salvato appena in tempo dal suicidio. E se da un lato Travetti si felicitava con se stesso per aver salvato la vita ad un artista, dall’altro si sentiva un po’ irritato per via della di lui insistenza. Infine Travetti si arrese e allora gli propose di combinare delle serate musicali (naturalmente a casa del “redivivo”, giacché il pianoforte stava lì), e fu così che il violino, da Enzo acquistato per poche migliaia di lire nella romana Porta Portese, finì alla Pineta di Pescara (dove rimase per sempre, perché quando Enzo fu trasferito non ebbe il tempo di ritirarlo. Quanti concerti! Il violino, che qualche imbroglione avrebbe potuto spacciare per un prodotto di certa liuteria veneziana per via della sonorità, se la cavava, anche perché Enzo vi aveva sostituito le corde, il ponticello e l’archetto. La partecipazione dei musici e degli invitati era intensa. I concerti si succedevano a cadenze regolari, e fra un brano e l’altro s’insinuava sempre qualche spunto di cronaca. Una serata, durante una pausa, Ettore raccontò che spesso, nel mezzo della pineta e nelle ore notturne, proprio sotto il suo balcone, si fermavano delle automobili con dei giovinastri a bordo (non sapeva che si trattava della compagnia di Crescenzo...), i quali, quasi non fossero in riva al mare, affidavano il loro repertorio di canti della montagna ad urla disarmoniche... Fu allora che entrò la bionda e giunonica moglie recante un vassoio su cui campeggiavano tazze di thè. In quel momento i concertisti stavano eseguendo il Tema di Lara , un motivo romantico, tratto dalla colonna sonora del film “Il dottor Zivago”, che in quegli anni stava riscuotendo un successo notevole. E’ uno di quei brani che generano una profonda carica emotiva e possono provocare reazioni incontrollate: cosa che accadde al pianista, il quale, trasfigurato, lasciò lo strumento e si slanciò improvvisamente verso la moglie e la strinse in un forte abbraccio mentre invocava il nome di Lara. La teiera, posata bruscamente su un mobile vicino, si salvò per miracolo.
La consorteria si affezionò ai pomeriggi musicali, e lo dimostrò non solo perpetuandoli fino alla partenza di Enzo, ma anche perché alcuni soci si accorsero che la loro frequentazione forse aveva sollecitato il processo di maturazione di certi valori: e questo, purtroppo, le fece perdere (alla consorteria) qualche “pezzo”. Pian piano, perciò, l’abitudine ai concertini si cominciò a rarefare. Si formò un altro coro sgangherato, ma potenziato, con l’arrivo di Giulia, quanto a distorsioni: nel repertorio di quei giullari c’era una carica spaventosa e disordinata di bemolle e di diesis, un misto di canti ed urla che sfociava in un frastuono simile al rotolare di pentole non del tutto rotte, che, a volta a volta, turbava inesorabilmente gli idilli fioriti sul belvedere di San Silvestro o nella pineta di Pescara; che si lanciava sui costoni della Maiella rimbalzando pei canaloni di Bocca di Valle ed echeggiando nelle botteghe artigiane di Guardiagrele o sugli altipiani del Tettone e della Piana delle Mele, indifferentemente colorati di verde o ammantati dalla candida coltre. Lontano, la collina e il mare raccoglievano sempre l’eco di quei canti di giovinezza, anche quando l’eco veniva filtrata da un velo di foschia. (Continua)

