Imu, doppie residenze ed esenzione ai coniugi

Le condizioni per ottenere l’agevolazione, anche con effetto retroattivo

Il rebus delle doppie residenze dei coniugi è stato risolto, ma tra i contribuenti restano ancora dubbi sul pagamento dell’Imu e sulla possibilità di ottenere il rimborso di quanto non dovuto.
La novità è contenuta nella sentenza n. 209 del 13 ottobre 2022, con cui la Corte costituzionale ha rivoluzionato l'esenzione Imu per l'abitazione principale: ai fini dell'esenzione, infatti, per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente. Eliminato il riferimento al nucleo familiare, l'esenzione Imu ora compete al verificarsi di due condizioni: la dimora abituale e la residenza anagrafica.
Più precisamente, la sentenza ha dichiarato l’illegittimità della norma in vigore dal 2011 (l’articolo 13 comma 2, del DL 201/11), nella parte in cui era previsto, ai fini dell’agevolazione Imu, che, per le coppie sposate o unite civilmente con residenze in case differenti (nello stesso comune o in comuni diversi), l’esenzione Imu era limitata a una sola delle due abitazioni, ossia quella in cui dimorava e risiedeva il possessore e il suo nucleo familiare, considerando l’altra a seconda casa soggetta ad Imu.
La pronuncia della Corte costituzionale, eliminando il riferimento al nucleo familiare, ha tolto in sostanza l’«automatico» assoggettamento a Imu di uno dei due immobili, rendendo possibile l’esenzione per entrambi (sia nello stesso comune che in comuni diversi) purché si verifichi effettivamente, per ciascuno di questi, la condizione della residenza e dimora abituale di uno dei due coniugi.
La sentenza ridefinisce, così, il concetto di “abitazione principale”, a prescindere dalla residenza e dimora degli altri componenti della famiglia, specificando che non viene determinata in alcun modo un’esenzione per le «seconde case» in cui uno dei coniugi abbia trasferito la mera residenza anagrafica, senza dimorarvi abitualmente.
Chi ha la residenza in un immobile, ma non anche la dimora effettiva, continua a dover pagare l’Imu per quell’immobile. L’esenzione, inoltre, spetta limitatamente alla propria quota di proprietà. Quindi se due coniugi sono entrambi proprietari al 50% di due immobili utilizzati come abitazione principale da ciascuno, ognuno potrà beneficiare dell’esenzione limitatamente all’immobile in cui dimora e risiede effettivamente, mentre sul suo 50% della casa utilizzata dal partner dovrà pagare l’Imu.

Come provare la residenza e la dimora abituale
La possibilità di fruire della doppia esenzione va verificata con molta attenzione, caso per caso da parte dei comuni, che hanno strumenti efficaci per verificare l’esistenza o meno della dimora abituale, soprattutto utilizzando le banche dati dei consumi energetici e idrici.
È compito dell’amministrazione comunale innalzare il livello dei controlli per far sì che questa nuova interpretazione della norma non presti il fianco ad irregolarità, a condotte fraudolenti e richieste di esenzioni e di rimborsi senza averne diritto. Allo scopo di dare seguito alla norma in ottemperanza ai principi di equità ed uguaglianza che persegue, i Comuni sono tenuti a verificare la veridicità delle dichiarazioni dei nuclei familiari e tutti gli aspetti che dimostrano la reale dimora/residenza effettiva (come, ad esempio, i consumi delle utenze domestiche, il luogo di lavoro, ecc.).
Questa condizione può essere provata, ad esempio, con le bollette delle utenze (acqua, elettricità, gas) che dimostrino consumi congrui durante i mesi dell’anno ed anche con la scelta del medico di base.

Le Sentenze della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado dell’Aquila
È sufficiente consultare le tre sentenze pubblicate al 30 giugno 2024 nella Banca Dati della Giurisprudenza Tributaria, per comprendere l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado dell’Aquila, che ha ritenuto infondati i ricorsi presentati dai contribuenti che hanno contestato gli avvisi di accertamento emessi dal Comune di Scanno per il recupero dell’imposta Imu non versata.
La prima sentenza è la n. 171/2023 del 14/06/2023, assunta dalla Corte in composizione collegiale, con motivazioni che si rinvengono anche nelle due sentenze successive.
Con la sentenza n. 366/2023 del 22/11/2023, la Corte, in composizione collegiale, ha ritenuto che “la contribuente non abbia dimostrato con adeguata forza probatoria di avere adibito l’immobile in esame a propria abitazione principale, attese le puntuali e verosimili eccezioni sollevate dal Comune di Scanno circa la ristrettezza temporale delle bollette fornite dalla ricorrente, l’esiguità dei consumi di luce e gas con riferimento a quelli medi annui di una famiglia, nonché la concentrazione dell’uso di tali energie nel solo periodo ferragostano” ed evidenziando “il mancato radicamento della stessa presso il territorio del comune di Scanno, ovvero la mancata documentazione da parte della ricorrente della scelta del medico di famiglia nel luogo in cui è ubicato l’immobile”.
Con la sentenza n. 294/2024 del 18/06/2024, il Giudice monocratico della seconda sezione ha respinto un altro ricorso, sottolineando che le fatture “non dimostrano l’abitualità della dimora nella predetta abitazione e che, al contrario, provano consumi piuttosto modesti e palesemente non congrui all’utilizzo non occasionale dell’immobile a fini abitativi, soprattutto nei mesi invernali (e tenuto conto anche della circostanza che le bollette erano tutte domiciliate altrove”.   

Gli effetti della sentenza sulla gestione da parte dei Comuni delle istanze di rimborso e degli avvisi di accertamento
La nuova disciplina IMU sull’abitazione principale, che scaturisce dalla sentenza della Corte costituzionale, pone i Comuni dinanzi alla necessità di dover operare delle scelte, da adattare caso per caso alle istanze di annullamento in autotutela degli accertamenti ovvero ai rimborsi richiesti dai contribuenti, anche in relazione alla tipologia di versamento effettuato e agli strumenti attualmente a disposizione per effettuare i controlli.
Con riferimento ai versamenti spontanei, la necessità di dar corso alle eventuali istanze di rimborso presentate entro i cinque anni dal versamento appare pacifica, ma non automatica. Per ragioni di legalità, sulle amministrazioni comunali incombe il compito di verificare l’effettività della condizione posta a base dell’istanza di rimborso, presentata dai contribuenti, che dovrà essere adeguatamente documentata al fine di dimostrare l’effettiva destinazione dell’immobile a dimora abituale del richiedente.
Un ragionamento a parte va fatto con riferimento all’attività di accertamento, soprattutto alla luce del decreto legislativo n. 219/2023, pubblicato sulla G.U. del 3 gennaio 2024, che ha modificato la disciplina dell’autotutela degli atti tributari, prevedendo l’esercizio del potere di autotutela obbligatoria da parte dell’amministrazione, in aggiunta a quello dell’autotutela facoltativa.
L’art. 10-quater della legge 27/07/2000, n. 212 dispone che l’amministrazione provvede in tutto o in parte all’annullamento degli atti di imposizione ovvero alla rinuncia all’imposizione, senza che il contribuente proponga l’apposita istanza, "anche in pendenza di giudizio o in caso di atti definitivi", come nei “casi di manifesta illegittimità dell’atto” per “errore sul presupposto d’imposta” ovvero per “mancanza di documentazione successivamente sanata”.
Nel caso di avvisi di accertamento non definitivi è del tutto indubbia la possibilità e l’opportunità per il Comune di procedere in via di autotutela, su istanza di parte, o d’ufficio, all'annullamento degli atti emessi e notificati ed eventualmente al rimborso nel caso in cui il destinatario dell’avviso di accertamento abbia proceduto al pagamento.
Nel caso di avvisi di accertamento divenuti definitivi è opportuno fare alcune considerazioni.
In primo luogo, occorre ricordare che nel caso di avviso di accertamento divenuto definitivo a seguito di sentenza passata in giudicato favorevole all’amministrazione, il rimborso non è dovuto e il Comune non può disporlo.  Nel caso di avviso di accertamento divenuto definitivo a seguito di pagamento o di mancata impugnativa, in base a quanto emerge da costante giurisprudenza, il rimborso non è dovuto. In tal senso la giurisprudenza della Corte di cassazione (Cassazione civile n. 7057/1997, Cassazione civile n. 7704/2000, Cassazione civile, sez. tributaria n. 20342/2019, Cassazione civile, sez. tributaria n. 19606/2018, Cassazione civile, SS.UU. n. 13676/2014, Corte di cassazione, ordinanza n. 6940/2022).
La possibilità di procedere all’annullamento d’ufficio è riconosciuta dalla dottrina prevalente nel caso degli avvisi di accertamento divenuti definitivi per mancanza di impugnazione. Si tratta, con tutta evidenza, di una scelta rimessa all’organo che ha emanato l’avviso di accertamento, la cui decisione investe la valutazione in concreto dell’interesse pubblico prevalente, che si collega a profili di assoluta rilevanza che attengono al ripristino della legalità dell’azione amministrativa ed alla tutela dei conti pubblici.
Alla luce della sentenza della Corte costituzionale appare evidente che il mancato riconoscimento del rimborso o dell’annullamento a fronte di un avviso di accertamento definitivo, risulterebbe iniquo, in quanto determinerebbe una disparità di trattamento nei confronti di coloro che hanno impugnato l’avviso di accertamento o che addirittura non hanno ricevuto alcun avviso.