LA BANDA “PASSAGUAI” DI COCULLO

Il complesso musicale che tradizionalmente dà un tono violento alle ricorrenze solenni abruzzesi è composto da strumenti a fiato e a percussione; talora compare anche il contrabbasso e in tal caso il complesso prende il nome “orchestra di fiati”. Da noi nel primo caso è conosciuto con il nome di “bband’”. Dalle trombe dei legionari romani al tamburo degli arabi si giunse alla “banda da giro” tra la fine del ‘700 e tutto l’Ottocento in alcune regioni del Regno Borbonico di Napoli. Il complesso in parola è chiamato così perché si sposta dalla cassarmonica per le vie del paese con brani interi di musica sinfonica, o estratti di essa, con polke e mazurke - creando così il clima festoso del giorno in cui gli abitanti trovano un motivo di svago e di riposo o, nel caso dell’omaggio che i Cocullesi rendono ai Caduti nel giorno della festa di santa Maria, con marce solenni.
Il titolo che Esiodo aveva dato a “Le opere e i giorni” ci fa riflettere sulla storia e sulla cultura di un popolo aprendo uno spaccato di vita contadina e popolare. Ma forse la siringa di Pan echeggiava ancora, poi sopraffatta dallo zufolo di Umbrone, dalle nenie marse e peligne…  I temi sono le origini della musica che ci riportano al mondo pastorale.
Anni fa il compianto professor Tarquinio mi segnalò i nominativi di tre cocullesi (due suonatori di strumenti ad arco ed un flautista) i quali, secondo quanto lui aveva letto presso l’Archivio di Stato di L’Aquila, nel ‘500 sarebbero andati a suonare nella nominata città in occasione della ricorrenza della Perdonanza dentro la basilica di Collemaggio: da ciò emerge che nel nostro paese non è mai mancato qualche cultore di Euterpe, dea del lirismo e della melodia. Mezzo secolo prima il re Alfonso d’Aragona aveva emanato la “Regia Prammatica sulla mena delle pecore in Puglia” immettendo su caprarecce, calli e raccordi il cromatismo sonoro delle colonne transumanti; sulla parte cocullese del valico di Forca Caruso passa il tratturo Celano-Foggia che evidentemente raccoglieva anche le greggi provenienti da Pescina, paese di provenienza del maestro direttore della banda cocullese e che i miei compaesani chiamavano per nome, Silvino. A questo punto apro una brevissima parentesi suggerita dall’immaginazione: ai primi del ‘900 la partenza autunnale delle greggi e la loro “remenuta” a maggio costituiva ancora uno spettacolo in pieno fulgore ed è quindi facile intuire che i ragazzi dei paesi vicini al tratturo andassero ad ammirarlo. E’ altrettanto facile pensare che un locato o un massaro o un semplice pastore amanti della musica abbiano fortificato l’attitudine del piccolo Alfonso, specialmente se costui lo ha seguito per due stagioni nella Daunia, raffinandolo poi sul modulo del “tremolio della marina”.
Qui evoco il complesso bandistico che esisteva sicuramente nel 1923 a Cocullo, e di cui sentii parlare da bambino, con il nome di “Banda Passavaije” (il soprannome di Salvatore Lisciotti - nella foto accanto al Maestro -, mecenate del complesso in quanto pare che avesse sovvenzionato l’iniziativa). La fotografia che mi procurai molti anni fa, corredata della didascalia compilata dal “bandista” Paolo Gentile, ritratto nella foto stessa, enumera nominativamente ventisette elementi anche se l’immagine ritrae più persone. Erano dilettanti e quasi tutti sprovvisti di educazione musicale, tranne due: il Maestro, che fra l’altro era un pescinese, e Alfonso Gentile (1903-1995; ma all’epoca della foto quest’ultimo forse era più dotato di vocazione per la musica che di conoscenza di partiture); più tardi conoscerà bene il pentagramma e suonerà tutti gli strumenti specialmente quelli in chiave di fa. Allora la famiglia Gentile non era di agiata estrazione, e da questo si desume che il bambino non poteva disporre di una formazione musicale regolare; posso dire soltanto che decenni addietro ebbi modo di vedere ritratto Alfonso, da giovane, accanto a un trombone e che poi, prima degli anni ’40, in Africa Orientale fece parte di complessi e fanfare militari, per cui al massimo, posso arguire che abbia avuto sempre la vocazione della musica, ma si sarebbe dirozzato e raffinato in Africa.
Mi spiace accomunare il pilastro della pastorizia con un parto della fantasia; avrei preferito esporre una versione che peraltro auspico sfiori almeno uno spicchio di realtà: ho suonato con Alfonso e assicuro che quest’ultimo leggeva tutti gli spartiti, compreso quello del violino. Aggiungo però un’ipotesi altrettanto suggestiva. Alla fine del 1918 la vittoria, incredibilmente ottenuta dopo il disastro di Caporetto, aveva generato un clima euforico in Italia. A quella impresa avevano contribuito tre Caduti cocullesi di cognome Gentile: Pasquale (dichiarato “disperso” presumibilmente nella zona di Vermegliano il 18 giugno 1916), Giuseppe (morto per ferite riportate in combattimento sul monte Pasubio il 27 giugno 1916) e il bersagliere Fabiano (“caduto sul campo dell’onore ed avrà il posto meritato tra gli eroi… ” il 23 maggio 1917 nel tragico Vallone di Jamiano per ferite riportate in combattimento). Uno di questi forse era lontano parente di Alfonso. Ancora, a stimolare il nascente nazionalismo diedero impulso dei provvedimenti legislativi quali l’istituzione in ogni paese e città dei Parchi della Rimembranza. A Cocullo, il viale omonimo era costeggiato da ippocastani: sul tronco di ogni albero rivivevano nelle foto in ceramica i volti dei Caduti locali della I Guerra Mondiale; comunque a nessuno di quei Giovani mancava un fiore; accompagnati dai loro insegnanti, gli scolari portavano fiori di campo. Di più, fra i tanti reduci di quel conflitto qualche nostro paesano avrà fatto parte di qualche fanfara militare ed al ritorno del paese natio avrà voluto rendere omaggio ai commilitoni sfortunati. Anzi, la vocazione dei musicanti sarebbe stata un ulteriore stimolo anche per altri musicanti ad orecchio. E allora perché i tanti reduci non avrebbero dovuto ricordare i loro amici sfortunati con i sentimenti espressi dai “fiati” con ingenua e commovente sincerità con la loro banda al tocco lugubre e poderoso del campanone, suonato a martello, della torre vicina ai ruderi della terremotata chiesa di San Nicola, ancora funzionante nei primi anni ’40 e la quale, non per semplice compiacenza, stemperava le stecche dei bandisti in un lontano lamento nell’altrettanto lontano, flebile, dolente canto appena ovattato nella memoria?
Nella valle c'è un cimitero,/cimitero di noi soldà.
ta pum! ta pum! tapuum!.../ta pum! ta pum! ta puum!... (1)
 
Ancora oggi nel giorno dedicato alla festa “di Santa Maria”, giorno che precede quella di San Domenico, la fanfara prenotata in altri borghi (da noi, dopo la diaspora dell’emigrazione, i residenti da quasi un paio di migliaia si è ridotto ad un paio di centinaia) fa risentire le note del Piave e del Silenzio al Monumento ai Caduti; perciò allora, nel secolo scorso, non è una bestemmia se immaginiamo che vi si recassero i musici cocullesi scendendo dallo “Scarico” vicino al ponte di Attilio, dove si svolgeva la fiera degli animali domestici. 
La processione uscendo dalla chiesa, anticipata dai nostri “pifferai”, si avviava verso la Rua Santa e lì sciorinavano le note fra il rotolar dei ciottoli; all’altezza del “forno delli schiavi” deviava verso Piazza Larga e l’Arciprete Don Loreto benediceva i campi vicino alla casa di Valentino Clemente; tornati indietro per dirigersi di nuovo su Piazza Larga e poi risalire per via Arco Sant’Orsola mentre si allontanava l’eco delle raganelle (2) che una frotta di bambini, uscendo da rua Pacchiarotta aveva riesumato per la recente Settimana Santa onde scuoterle quando le campane erano state silenziate (“legate”) e poi da via Porta Ruggeri saliva verso l’Aracella in direzione della Piazza della Madonna per proseguire fino alla via della Stazione (altra benedizione dei campi), arrampicandosi poi per via del Calvario, divenuta da qualche anno tappa obbligata a causa dell’influenza dei Passionisti, saliva sul borgo oggi abbandonato (Curro) per ridiscendere lungo via Canale e poi riprendere il pendio di via San Domenico che porta al Santuario (3).
Oggi della “bbanda Passavajie”, scomparsa nell’esodo migratorio sempre più notevole dall’inizio del secolo scorso al secondo dopoguerra, resta solo il ricordo  in qualche vecchio strumento musicale rinvenuto nelle  abitazioni ancora in piedi e nell’immagine di musico su poche lapidi tombali del cimitero cocullese.
Fino agli anni ’90 del secolo scorso qualche intenditore superstite e ancora vivo (Alfonso Gentile, don Giovanni de Sanctis e il figlio dottor Giorgio, Antonio Buccini, l’Arciprete don Loreto Marchione, ecc.) suggerivano ai locali “festaroli” quale complesso bandistico potesse contribuire alla riuscita delle feste di maggio: così il paese riuscì ad ospitare bande di grido: banda dei Carabinieri, banda di Taranto, di Acquaviva delle Fonti, e quasi tutte quelle pugliesi. Ora il pauroso spopolamento non permette la presenza dei complessi autorevoli per ovvii motivi e allora si spiega l’episodio che riferisco in conclusione. Un bambino, il quale prima della festa aveva osservato l’allestimento della cassarmonica, la sera del concerto con un giravite allentò la vite superiore di una stecca (la cassa, a forma di carosello, era ornata intorno da stecche di legno fermate da tre viti all’interno). Su quella stecca si appoggiò un suonatore di clarino e quando essa cedette nella parte superiore il musicista trovò rifugio nella stecca accanto mentre il clarino oltraggiava Verdi.
Adesso contentiamoci del frastuono rumoroso della festa, del cromatismo delle bancarelle e, perché no?, della fanfara che quando passa per le vie compie onestamente il suo mestiere mentre io, aperta la finestra, sorbisco, anziché soffiare, un cono di gelato nella speranza di attutire eventuali “stecche” e nella certezza di gustare il dolce. 

Elenco dei bandisti fornito dalla figia di Paolo Gentile, che ne ha riportato i nomi nello stesso ordine con cui li aveva elencati il padre: Gentile Paolo, Gentile Giuseppe (padre di Paolo), Chiocchio Antonio (padre di Enzo, Gentile Alfanso. Gentile Giulio Carnevalitte, Davide Leoncino, Mascioli Domenico Castrese, Manni Massimino, Risio Andrea, Chiocchio Americo, Chiocchio Colombo, Gizzi Gino, Gizzi Armando, Mascioli Tarquinio, Gizzi Giuseppe, De Bellis Panfilo, Parisse Panfilo, Nonni Gennaro di Giannantonio, Lisciotti Salvatore Passaguai, Silvino di Pescina il maestro, Mascioli Palmiero, Mascioli Emilio, Mascili Renato, Chiocchio Franco, Carbone Venanzio, Marinilli Domenico, Marchione Franco.

Note
1- La canzone comincia “Venti giorni sull’Ortigara”, dove morì eroicamente il 25 giugno 1917 il sottotenente degli Alpini (allora “aspirante”) Gioacchino Panecaldo. di Cocullo, paese che allora non toccava nemmeno duemila abitanti, e che nella I guerra mondiale contò ventinove morti e molti feriti. Fra i Caduti cito il più alto in grado: il tenente Giuseppe Franco che era caduto ”sul  campo dell’onore” il 15 agosto 1916 sulle balze del San Gabriele.
Veramente il canto ha avuto diverse versioni. Io preferirei scrivere “Sulla vetta c’è un cimitero”, anziché “Nella valle” perché il nostro Gioacchino fu raccolto a brandelli e sepolto sul campo di battaglia a quota 2105.
2 - Strumento di legno percosso, in seguito al movimento agitato del braccio, da due maniglie mobili fissate ai due lati di una tavola. 
3 - Il tragitto immaginato è quello localizzato all’allora centro storico e al borgo scomparso del Curro (Don Loreto è stato il parroco di Cocullo dal ‘900 al ‘950 e il tratto della via della Stazione dal passaggio a livello alla casa di Pietro Volpe era occupato dalla ferrovia che portava all’officina dello stesso).