Parliamo di cose concrete

A Sulmona una campagna elettorale nuova rispetto al passato

“Non chiedete cosa può fare il vostro paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro paese”.
Queste parole furono pronunciate da J.F. Kennedy, il 20 gennaio del 1961 in Washington il giorno dell’insediamento alla presidenza degli U.S.A. E sono rimaste, nella storia contemporanea nella quale siamo immersi, la sintesi di un modo nuovo del rapporto tra il potere in carica e l’origine stessa di chi lo genera: appunto, gli elettori, nei regimi democratici.
Per la verità, finora, nessuno, a Sulmona, tra i quattro candidati a Sindaco, ha esplicitamente richiamato il simbolo del mondo nuovo che dall’America degli anni sessanta ci avrebbe coinvolto dopo la fine della seconda terribile esperienza del secolo passato: la seconda guerra mondiale. Ciononostante dalle prime battute vere di campagna elettorale, tra Tirabassi, Figorilli, Di Ianni e Puglielli, questo ricordo giovanile confesso che mi ha catturato, anche perché forse, nel frattempo, Andrea Ramunno, già consigliere comunale, appassionato di storia della politica locale, proprio in questi giorni, ha proposto all’attenzione pubblica ovidiana (tramite programmi social nei quali è molto attivo) un forte parallelo tra le situazioni politiche e sociali di Sulmona e della Valle Peligna tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso e le vicende attuali. (Il tutto a mio parere, protagonista della politica attiva di quegli anni, non senza una qualche stimolante ragione di parallelismo.)

La questione nasce dal rapporto che si pone tra chi propone una campagna elettorale legata alla “forza attrattiva” della filiera del potere (che assicura certezze ad amici e addetti…) e chi, al contrario, confida sulla possibilità di individuare la strada della ripresa e della speranza, così come accadde nei primi decenni del secolo passato, invertendo, per quel che ci riguarda, una china negativa e priva di concrete prospettive. (C’eravamo. Eravamo stati eletti consiglieri comunali ed eravamo un bel gruppo di ragazzi poco più che ventenni che trasversalmente si ritrovavano in quasi tutti i partiti, pur stando ciascuno con il proprio. L’unica grossa realtà occupazionale della zona, l’Adriatica Componenti Elettronici, che occupava soprattutto donne (cinquecento), si avviava alla chiusura, qui, perché in prospettiva di delocalizzazione (si sarebbe detto oggi; sostanzialmente come la Magneti Marelli). Era poca la possibilità di riuscire a fermare, con la volontà dei comportamenti delle organizzazioni sindacali, l’arroganza unilaterale di un padronato che all’epoca traeva il massimo dell’utile possibile dagli incentivi pensati dai Governi di allora per favorire gli insediamenti industriali soprattutto del Mezzogiorno nel tentativo di aiutare la trasformazione dell’originaria cultura contadina in operaia e manifatturiera. Poche, insomma, le possibilità di successo.
Così pensammo che l’unica opportunità che avevamo era la sostituzione del sito industriale dell’ACE (proprietà tedesca) con un insediamento legato alla FIAT (proprietà italiana) che dai livelli nazionali era possibile nel Sud nell’ambito della politica della contrattazione programmata, strumento che i Governi di allora mettevano in campo per incentivare sviluppo e ripresa, dopo i disastri del fascismo e della guerra.
Ce la facemmo. La Magneti Marelli di oggi, nacque, allora, come FIAT meccanica. E l’operazione significò l’avvio di un processo di crescita di Sulmona e della Valle Peligna, con una significativa urbanizzazione che affrontammo con una variante specifica ad un Piano Regolatore riconsegnato proprio in quei giorni, ma, inattuabile.

“Un’altra Sulmona è possibile, ma solo se lo vogliamo davvero”, così ripete Angelo Figorilli, a conclusione del suo programma, sedici questioni sulle quali il candidato Sindaco cerca di trovare le ragioni di un “dialogo” con i suoi concittadini, ma anche con tutti quelli che orbitano su Sulmona e la Valle Peligna nel tentativo di individuare idee e ragioni per darsi un ruolo per restare, anche stabilendo di andarsene, perché si può “andare via” per tornare, si può e si deve andare via, restando connessi con Piazza Ovidio, il Corso e la Valle, purché ci sia una ragione. La cosa essenziale ed importante è che si sia convinti che con le risorse che abbiamo è possibile pensare un’altra Sulmona, diversa da quella che oggi vediamo in caduta libera, priva di stabilità politica e di un disegno di futuro tutto affidato ai detentori della “filiera del potere” che di promesse non mantenute ne accumulano …troppe.
Certo “un Comune non può fare tutto, ma quello che può fare deve farlo bene” e un consorzio tra Comuni, per esempio, che nasce per trasformare in ricchezza i rifiuti urbani, non può rischiare di fallire perché viene ridotto ad un mero ufficio di collocamento. Ma un Comune, da solo, rischia di non poter risolvere la questione. Ecco perché si deve stare “insieme”, per fare alcune cose.
Si deve stare insieme per far capire alla Regione, per esempio, che “il buco nero della sanità” non può essere un buco senza fondo, né è colmabile con una piccola maggiorazione di IRPEF (nemmeno 43 Milioni) a carico di chi da sempre appartiene all’unica categoria di persone che le tasse, per il SSN, le paga automaticamente, per un prelievo alla fonte del reddito! Né è “colmabile” con il riconoscimento strutturale di 40 milioni l’anno, per i prossimi due anni…perché la verità è che non si conosce bene l’entità del deficit accumulato a fronte di servizi insufficienti e/o discutibili che spesso al cittadino non riescono a dare risposta, tant’è che (lui, il cittadino) è costretto a scegliere di andare fuori regione per farsi curare. E così non fa altro che far crescere il debito. Mentre chi ha la responsabilità, per contratto, della gestione e dell’organizzazione dei servizi, disponendo di un budget che dovrebbe esser noto, e deve render conto della gestione e dell’organizzazione se non riesce a garantire il raggiungimento degli obiettivi per il quale è utilizzato, deve andare a casa, deve essere sostituito.

Ma a volte questi comportamenti non possono esser messi in atto dalla logica della “catena del comando” perché la logica che anima la catena del comando è una logica di protezione, quella che sta facendo fallire il Cogesa e che comunque ne sta stravolgendo le ragioni stesse della nascita, ovvero quella che rincorre una copertura di deficit finanziario della sanità senza riuscire a garantire servizi soddisfacenti.
In queste ore sembra che Marsilio si sia deciso ad investire della questione il Ministero rivendicando un diritto
di attenzione maggiore a favore delle regioni più piccole.
Ma non corre il rischio che qualcuno gli chieda il conto dell’utilizzazione del budget finora riconosciutogli, viste le deroghe applicate, rispetto agli ordinamenti correnti per i quali l’Abruzzo brilla per inadempienze. O non è così?