Abruzzo Elzeviri
21 Aprile 2025, 07:39
DUE ABATI E DUE PAPI
Gioacchino da Fiore e Celestino III, Pietro del Morrone e Celestino V
Nino Chiocchio
Questo saggio ero stato tentato di comprenderlo nel lavoro che sarà pubblicato immediatamente dopo (“Un lacerto di pittura nella tradizione serpara”); ma poi ho pensato che avrei dovuto tratteggiare una tematica un po’ complessa, che pur sfiorando il tema riguardante soprattutto il frammento pittorico, avrebbe potuto richiamare l’attenzione del lettore su un argomento interessante, anche se attinente ma necessariamente alquanto prolisso.
La comparsa di Gioacchino è appesa al filo dell’Ordine gerosolimitano sorto poco dopo il 1000 a Gerusalemme ad opera dei Cavalieri cristiani scesi in Terra Santa, divisi in correnti diverse a seconda dei diversi orientamenti, ma osservanti in generale della Regola di San Benedetto. Forse uno dei primi teologi dopo il 1000 fu l’abate Gioacchino da Fiore, “di spirito profetico dotato” (Dante, nel Paradiso, così lo descrive, mettendolo tra i sapienti). I seguaci immediati di Gioacchino (Florensi) furono chierici, monaci e laici, riuniti in Congregazione la quale fu approvata da papa Celestino III nell’anno 1196: questo è importante perché dobbiamo tenere presente che quando Pietro del Morrone salirà al trono pontificio, prenderà il nome di Celestino V delineando così il suo programma di radicale continuità con i Padri della Chiesa, vedendo in quelli l’osservanza e la tradizione dello spirito evangelico. Il programma era influenzato dagli insegnamenti propalati a Firenze da un seguace di Gioacchino, il teologo francese Pietro di Giovanni Ulivi, francescano ritenuto capo degli Spirituali, professore di teologia per due anni (1287-89), presso il convento francescano di Santa Croce e forse conosciuto direttamente da Dante, ventiduenne, durante la frequenza agli studi di filosofia e di teologia: l’Ulivi ritenne valida l’abdicazione di papa Celestino V e l’autorità di Bonifacio VIII che pure era ostile ai Francescani Spirituali. Ricordo per inciso che Dante cita Gioacchino nel canto del Paradiso della sua Commedia, descrivendolo “abate Giovacchino/ di spirito profetico dotato”.
Questa parte dell’Abruzzo è ancora permeata, dopo quasi un millennio, di gioachinismo. Me ne accorsi dopo qualche anno che me ne aveva parlato la nonna paterna, la quale ricordava vagamente e confusamente che la vita del mondo, “secondo gli antici”, diceva, si divideva in tre fasi, ciascuna rapportata rispettivamente alle figure della Trinità. Allora ero un bambino e qualche anno dopo, studente, capii che lei aveva letto a suo tempo o le avevano raccontato la storia di Gioacchino da Fiore: costui era nato a Celico (provincia di Cosenza) nel 1135; morì a Pietrafitta (stessa provincia) nel marzo 1202.
L’abate distingueva nella storia dell’umanità il succedersi di tre momenti, cioè tre fasi, ognuna di esse rapportabili ad una figura della Trinità: Padre- il Vecchio Testamento, quindi il periodo precedente la venuta di Cristo; Figlio- il Nuovo Testamento, cioè la venuta di Cristo, e la comparsa della Chiesa; Spirito Santo- è l’età dell’avvenire, quindi l’epoca del trionfo della libertà spirituale intesa nel rispetto dei canoni ispirati alla concordia, alla carità, alle virtù estricantisi nel progetto di affidare la guida degli uomini ad un ordine religioso. Dopodiché l’umanità intera attenderà la venuta dell’Anticristo e successivamente la risoluzione divina.
La profezia procurò a Gioacchino molti adepti oltre agli ammiratori della sapienza dell’abate calabrese; ma anche generò molti equivoci da parte dei detrattori.
Gioacchino da Fiore fu venerato e considerato beato dai cistercensi, dai Francescani spirituali, dai Gesuiti bollandisti. L’abate calabrese è stato citato recentemente dalla somma autorità religiosa vivente, papa Francesco, con parole lusinghiere, la qualcosa potrebbe alludere ad un meditato riconoscimento tardivo. Molte correnti dei Florensi lo raffigurarono in abito cistercense (1)
.
L’abate andò a far visita ai Cistercensi di Casamari e vi restò a lungo; incontrò papa Lucio III, il quale gli chiese di raccogliere i suoi scritti e lui poi li inviò alla Curia Pontificia perché riteneva che la Chiesa fosse la maestra dei fedeli e quindi coreggesse quello che non riteneva opportuno. A questo proposito rilevo l’analogia tra la “maestra dei fedeli” di Gioacchino, la fedeltà di San Francesco a Dio e l’umiltà di Celestino V quando, deposta la tiara, chiese al Sacro Collegio che il suo successore correggesse gli errori da lui commessi.
Pietro del Morrone
«Vidi e conobbi l'ombra di colui /che fece per viltade il gran rifiuto»: è papa Celestino V che traspare al Poeta come un’ombra nell'Antinferno; non solo gli dà una collocazione imprecisa - tra gli ignavi -, ma soprattutto perché forse Dante, com’ebbi a scrivere a suo tempo, non intendeva stigmatizzare con un appellativo negativo l’abdicazione, sibbene l’umiltà (non viltà), secondo me, che dimostrò quando scese dal trono pontificio pregando i cardinali del Sacro Collegio che il suo successore correggesse gli errori da lui consegnati ai Brevi del suo pontificato; se invece il Vate ha inteso “viltà” per vigliaccheria o pochezza mentale, gli ha dato la pariglia allorché ha ficcato tra i simoniaci dell’Inferno Bonifacio VIII, oppositore della fermezza testarda e arcaica; il poeta fiorentino (che poi i bonifaciani condanneranno all’esilio) scriveva che ai tempi di papa Caetani la Chiesa era ridotta a qualche cosa di simile ad una “cloaca”.
Su Celestino V ho scritto molto e ora mi piace ricordare che, divenuto papa, esentò la sua Congregazione dal controllo vescovile e la dipendenza dei monaci di S. Spirito a Maiella dalla dipendenza papale e, passando per Montecassino nell’autunno 1294, aggregò i Cassinesi (i quali in verità si ribellarono) fra i suoi monaci, gli Spirituali (provvedimento poi annullato da papa Bonifacio VIII). Aggiungo che quasi un mese prima dell’abdicazione Celestino ricevette autorevoli personalità dei Francescani, ai quali, permeati di spiritualità, suggerì di entrare nella sua Congregazione, ma costoro, pur restando vicini a lui, rifiutarono volendo rispettare il precetto del Fondatore del loro Ordine secondo cui non si doveva tradire la fede nell’istituzione ecclesiastica: il papa accettò le argomentazioni dei suoi interlocutori e i Francescani, che restarono nella Congregazione, furono inquadrati come “Pauperes Fratres domini Caelestini” indossando l’abito grigio prima di quello benedettino.
Questo spiega, secondo me, perché successivamente papa Bonifacio VIII operò la svolta verso l’adattamento al progresso della società (e purtroppo verso il fasto e la corruttela) servendosi dei Francescani. (Foto, Miniatura di Giocchino da Fiore nel codice Chigiano, Biblioteca Apostolica Vaticana)
NOTE
1 - E questo proietta il monaco che seguì la Regola benedettina nell’Ordine cistercense.