UN LACERTO DI PITTURA
in Quattro Puntate

III puntata -TABERNARO - da taverna, oste, gestore della taverna che ospitò la “solennità esterna” fin dalle origini/completamento con l’ornamento pittorico della struttura???- “Il culto di San Domenico a Cocullo” è il titolo di un saggio pubblicato dal compianto prof. Angelo Melchiorre, già Direttore della Biblioteca della Diocesi dei Marsi. Egli afferma che nella stessa Biblioteca ha reperito “fogli manoscritti” da cui si legge che nel 1778 un chierico di nome Cassiano Pozzi (1) maglianese, venne a Cocullo con degli accoliti per onorare San Domenico (solennità esterna del 1° giovedì di maggio – osteria) e con i suoi amici presso il valico di Forca Caruso inneggiava al Santo e pronunciava frasi blasfeme “assalendo” e minacciando le persone che incontravano: diciamo che il Pozzi simboleggiava la fazione profana e le persone minacciate rappresentavano la Confraternita della Madonna delle Grazie, la quale lo stesso giorno, 1° giovedì di maggio, festeggiava con cerimonia religiosa la Vergine.
Verrebbe da pensare che la tradizione serpara tirasse ancora colpi di coda nel 1778 e che poi sarebbe stata soffocata formalmente dal Breve di papa Leone XIII, Breve con cui si riconosceva ai Cocullesi la facoltà di duplicare la festa di San Domenico di gennaio a maggio “purché nel rispetto della liturgia”. Deve trattarsi di una logora appendice della tradizione ancestrale manifestata verbalmente con pervicace rabbia, sul pericoloso e aspro valico di Forca Caruso, secondo dopo le asperità di Scanno, sull’ “erbal fiume silente” (tratturo) delle pecore marsicane confluite al punto di raccolta di Scanno.
È bene riprodurre in proposito le frasi, tratte da atti dell’Archivio cocullese, da me commentate in uno scritto edito, frasi che sembrano propedeutiche a quel Breve: Una lettera che il non meglio identificato Michele, o fra’ Michele, scrisse a Melchiorre Delfico nel marzo 1781 (si badi a questa data) iniziava così: Parlando, fra gli altri giorni sono, con uno che qui passa per assennato, mi disse, che dovendosi fare a Cocullo una certa processione, che ricorre ogni due o tre anni più presto o più tardi, secondo il piacere del Arciprete, ed in essa andando ognuno ben provveduto di Serpi, d’ogni sorta, che depongono poi nella chiesa, senza che offendino alcuno... (Archivio comunale). (2)
Nel 1782 il “Reggimento” adottò una delibera; ne riporto un brano nel quale risulta che un anonimo cocullese (l’Arciprete?) espose al re l’opportunità di chiudere l’osteria antichissimamente edificata vicino la piazzetta di S.Domenico... perché in essa si pratticano funzioni scandalose contro il decoro della religione in danno della chiesa di S.Domenico.
Quindi nell’osteria si svolgeva un rito profano – a quando risaliva? -, radicato nella tradizione popolare e specialmente pastorale, in concorrenza con la solennità religiosa della Madonna delle Grazie. Dopo il Concilio di Trento non poteva essere ammesso che questo rito si svolgesse in veste pagana coinvolgendo un santo cattolico; forse qualche sacerdote provò a metterci le mani, ma la tradizione, sebbene mascherata da una ignorante devozione, era dura a morire per via delle tante scorie pagane diffuse nell’ambiente popolare.
Si trattava di un rito blasfemo che i Cocullesi celebravano nel giorno dedicato alla Madonna prima ancora di ottenere l’autorizzazione papale e che doveva essere diventato un problema per il clero.
Riuscì ad avviare a soluzione quel problema, quasi del tutto e molto probabilmente, per via dei numerosi indizi da me accennati altrove, un arciprete paziente e illuminato, verso la metà del ‘700, che in vari scritti ho individuato in Don Crescenzo Arcieri (nato a Cocullo ai primi del ‘700 e forse morto verso il 1790 – firmò gli atti di matrimonio fino al ‘788), che oltre tutto aveva respirato l’aria cocullese fin dalla nascita e quindi conosceva bene i suoi paesani.
NOTARO– L’effigie chi riproduce? Il 23 marzo 1264, scrive Monsignor G. Celidonio: “Stefania fu Paolo M.° Simone di Sul. dà a D. Giov. di Giacomo e Notar Nicola Gualt. di Costantino, canonici di S. Panf. e Sindaci del Cap.lo una terra al cerqueto presso i possedimenti di S. M.a de Corboni; altra al padule presso il Notar Odorisio di Cocullo; omissis”. Dunque nel 1264 nel nostro paese c’era almeno un notaio, tale Odorisio, il quale tre mesi prima, cioè il 14 dicembre 1263 era stato protagonista, con i fratelli Simone e Palmerio “del fu Gualtieri” di un atto di compravendita.
L’ombra del notaio s’allunga dalla “scuola siciliana” di Federico II di Svevia con le figure “sacre” di Iacopo da Lentini (1210 circa–1260 circa), a Pier delle Vigne (1190 circa – presso Pisa 1249) fino ai “tabellioni” della tarda romanità. Il notaio redigeva e conservava gli atti e i contratti fra privati sia nel campo fondiario ed edilizio che in quello mercantile.
Ma a Todi allora viveva un altro notaio ben più importante del nostro: Jacopone, il quale esercitò la professione, oltre che quella, di scrittore e poeta, e che, dopo la morte della moglie, divenne frate laico nell’Ordine dei Minori Francescani della corrente degli Spirituali (fece parte della Congregazione celestina dei “Pauperes Fratres Domini Celestini”); per questo motivo fu condannato da Bonifacio VIII e, ritiratosi a Palestrina, firmò con i cardinali Colonna il famoso manifesto di Lunghezza contro Bonifacio. Poi, dopo la battaglia di Palestrina del 1298 fu incarcerato e scomunicato dallo stesso papa, ma ottenne la beatificazione avendogli tolto la scomunica Benedetto XI. Prima, però, quando Pietro del Morrone aveva indossato la tiara pontificia, Jacopone lo aveva punzecchiato con una satira in cui gli suggeriva di stabilire un paragone fra la dolcezza dell’estasi eremitica ed il frastuono dell’edonismo e i vizi e il fasto della Curia.
-Altro significato possibile: amanuense, nel significato originario di esecutore di un servizio originato da una mano, cioè copista. Anche qui si potrebbe immaginare un’ingiuria rivolta ai monaci amanuensi del monastero.
Un copista del genere suggerisce alla mia fantasia un punto di raccordo con gli altri peccatori.
 
Sospinto dalla brezza profumata di spezie medio-orientali (3) la vela di Enea si impantanò sulla costa fertile del Lazio inferiore (“Campania felix”?).
Il troiano, poi, anticipando la guerra italica o marsica o sociale del 90 a.C., s’inoltrò verso l’Abruzzo e i Marsi cercarono di fermarlo. Turno, re dei Rutuli, chiese aiuto al re dei Marsi, Archippe, per allestire un esercito che respingesse lo straniero e questi convocò Umbrone, giovane condottiero della zona, il quale era incantatore che ammansiva i rettili.
Ciurmatóre= Imbroglione; anticamente era colui che operava incantesimi o preparava e vendeva farmaci.
A questo mondo apparteneva un tale Paolo Ciarallo, arciprete di Bisegna: ereditò dai suoi ascendenti la capacità di cacciare i rettili e di curarne i morsi. I componenti della prosapia avevano sulla spalla inciso il simbolo di un serpe.
Questo potere dei Marsi è documentato dal Febonio: "Fino a poco tempo fa si potevano incontrare, in ogni luogo del Regno Napoletano, incantatori provenienti dalla Marsica. Essi portavano delle scatole piene di serpenti con i quali giocavano e si offrivano anche di rendere gli spettatori immuni dai morsi dei rettili facendo un graffio sulla mano, con il dente di una vipera. privata del suo veleno. Poi, applicavano sul morso una pietra misteriosa e si accomiatavano regalando agli "inciarmati" una immagine di San  Domenico".
In conclusione il lacerto (peccato che non sia affiorato l’intero dipinto) secondo me potrebbe raccontare  la tradizione serpara a Cocullo. Quindi il saggio è stato scritto dal Maestro attraverso le immagini che ha dipinto. Io non ho fatto altro che aggiungere qualche mio coraggioso commento allo spettacolo della festa che fu. Ora non resta che rammaricarmi rileggendo la frase di Salmon: dall’ipotesi dell’ascendenza marsa fomulata, oltre che da me e prima di me, da firme sicuramente più autorevoli. Il Salmon, tra i contemporanei, parrebbe far risalire tale ascendenza addirittura ai tempi pre-omerici per via di Kerres o Cere! Egli così scrive: “…nell’Italia rurale certe pratiche religiose dovettero certamente sopravvivere, e non è escluso che certe cerimonie che si celebrano tuttora, come la festa dei Serpenti a Cocullo (peligna) e la festa dei Ceri a Gubbio (umbra), con le loro caratteristiche essenzialmente pagane, possano essere una lontana eredità in onore di Angizia e Kerres” (E.T. Salmon, “Il Sannio e i Sanniti”, Einaudi 1985, pag.176). Questa frase che chiude lo scritto nello stesso tempo risale alle RADICI di quel che resta della pittura (tra la figura dell’avaro disteso comodamente e il bestemmiatore, sullo sfondo appare il diavolo); segue lo SVILUPPO del rito di San Cassiano con le spezie orientali e Umbrone; passa alla MANIPOLAZIONE dello stesso rito con Cassiano Pozzi e alla PURGA (1824) di papa Leone XIII.

NOTE
1 - L’Autore specifica che il chierico Cassiano si recava con i suoi accoliti in pellegrinaggio al Santuario di Cocullo. Dal che si potrebbe dedurre che andava alla “solennità esterna” del primo maggio.
2 -Tutti i brani di documenti qui inseriti erano stati da me riportati in vari scritti.
3 - Sembra che i primi idolatri del serpente fossero provenienti dall’Oriente. Nell’Asia minore-Ponto forse fiorirono i primi studi sulla teriaca per trovare un antidoto al veleno dei serpi.