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Nino Chiocchio, L’alba dei travetti e il crepuscolo dei travetti

Premessa - Introduzione - Prefazione

PREMESSA
Nel novembre 2000 mi ero procurato il materiale necessario per ricordare le mie esperienze giovanili e non di “monsieur Travet”. L’opuscolo era stato stampato da me “in proprio”: rimasto inedito, perché ne servivano una trentina di copie da inviare agli amici e colleghi chietini e forse a qualcuno di Roma. Poiché i tipografi non pubblicavano meno di cento tirature per libro, fui costretto a fare tutto io con il mio computer e con la mia stampante.
Era da poco cessato il fragore delle armi del secondo conflitto mondiale e della guerra civile, il cui fumo ancora covava sotto le ceneri. Tuttavia avevo superato agevolmente gli esami di maturità classica e mi ero iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza della Università “La Sapienza” di Roma. Il corso degli studi andò un po’ lentamente perché amavo frequentare più le lezioni nella Facoltà di Lettere Classiche… Però il tempo passava e quando uscii fuori corso stimai opportuno affrontare dei concorsi pubblici, me ne andarono bene un paio: uno alla Pubblica Istruzione ed uno alla RAI; fui chiamato prima al Provveditorato agli Studi di Chieti ove assunsi servizio il 1° settembre 1962. L’impiego burocratico: svaniva così il sogno dell’insegnamento!
Malgrado tutto mi trovai molto bene e fu così anche i primi anni dopo il mio trasferimento a Roma nel ’68: erano, quelli, gli anni della “contestazione studentesca”, che sperimentai qualche mese dopo avere assunto servizio nella capitale. Al Palazzo degli Esami si doveva sostenere la prova scritta da parte dei candidati all’insegnamento di Materie Giuridiche ed Economiche; tra questi frullava l’aspettativa del “6 politico”; io ero stato incaricato di assistere allo svolgimento “regolare” della stessa. Alle ore 9 non si era presentato ancora alcuno in aula. Chiesi e mi fu risposto che gli interessati non volevano entrare ed erano agitati. Scesi giù e il trambusto aumentava sempre più. Quando mi affacciai al portone vidi una marea di rivoltosi fra cui spiccava, al centro, una persona alta che sembrava ancora più alta delle altre, perché sventolava l’ “Unità”: mi parve di riconoscere in quella persona il mio compagno di banco quando frequentavo il Liceo. Lo chiamai per nome e, riconoscendomi a sua volta, si fece largo e si accostò a me chiedendomi che stessi facendo lì; risposi che mi guadagnavo il pane che lui stesso avrebbe potuto guadagnare lavorando. Mimmo, malgrado tutto, era un bravo ragazzo, mio amico e tale restò da quasi mezzo secolo in poi, cioè dal giorno in cui ci rincontrammo più volte con altri … veterani compagni di Liceo, fino alla sua morte. Allora ricordammo alcune esperienze scolastiche e quindi lo pregai di salire su. Così fece e lo seguirono i suoi colleghi. Le cose che si stavano mettendo male acquistarono la tinta rosea e quando, mentre lui scriveva, gli passai vicino, trovai il coraggio di scherzare avvicinandomi a lui e gli sussurrai: ”Mì’, che figura!”.
Questo fatto era stato il mio secondo biglietto  da visita per il mio nuovo Provveditore, dottor Aldo Tornese; il primo lo avevo presentato all’arrivo nella nuova sede romana: era già maggio e si sarebbero dovute stilare le graduatorie provvisorie degli aspiranti agli incarichi di insegnamento nelle scuole superiori entro giugno, però la circolare esplicativa della Legge relativa alle autocertificazioni da parte del Ministero competente non era stata ancora emanata, per cui i colleghi romani avevano seguito le regole dettate da quella dell’anno precedente; il che aveva creato un equivoco: nel gennaio dello stesso anno era uscita la legge suddetta (autocertificazione), la quale cambiava un po’ le carte, in quanto eliminava alcune documentazioni sostituite da certificazioni autografe sulle rispettive domande. Io, provenendo da Chieti, sapevo che lì le graduatorie erano già state compilate avendo discusso con i colleghi chietini la legge di gennaio con il Presidente della Corte di Appello de L’Aquila. A Roma avevo portato con me una fotocopia de “La Gazzetta Ufficiale” attinente all’argomento. Mi fu richiesta e la illustrai il giorno dopo. Il giorno seguente il Provveditore ci riunì e diede indicazioni sulle modalità da seguire, che poi erano le stesse che avevamo eseguito a Chieti. Il commento scherzoso di un mio collega romano fu la promessa ironica di una punizione che avrei meritato se li avesse costretti a rivedere tutte le domande: la qualcosa fu fatta immediatamente con il mio aiuto. Era il giorno festivo dedicato ai lavoratori! Passò qualche tempo e dopo un paio d’anni il titolare del Provveditorato fu collocato a riposo per raggiunti limiti di età. Passò parecchia acqua sul Tevere e il mio superiore diretto di allora mostrò di ricordare nei miei confronti un vigliacco risentimento a causa dell’eventuale richiamo fattogli dal capo per la disattenzione della legge sulla autodichiarazione.
Chiedo venia al lettore che avesse avuto vaghezza di leggere questa premessa-sproloquio un po’ barbosa e abbastanza confidenziale; e mi consolo nella speranza che i giovani dell’ultima generazione prendano atto che la maturità non si raggiunge con il pezzo di carta, sibbene con la materia cerebrale coniugata a carne ed ossa.
 
 INTRODUZIONE
            
 C’era una volta Travetti Crescenzo (Enzo per gli amici) il quale, a causa di un concorso, stipulò un contratto con lo Stato: insomma instaurò il così detto rapporto d’impiego. Allora i Sindacati non c’erano o contavano poco. I servitori dello Stato (così in quel tempo amavano esser chiamati i travetti) facevano di necessità virtù e si organizzavano come sapevano fare: abbastanza bene, pare (a parte la sfaccettatura di quelli vagabondi, che però finirono col trascinare nella palude anche i tanti colleghi onesti), se è vero, come è vero, che la macchina pubblica funzionava.
Generalmente gli “statali” entravano in ruolo perché avevano superato apposite prove, come aveva fatto Travetti, e generalmente superavano quelle prove perché erano preparati; poi si accentuò l’usanza delle “raccomandazioni”, ed accanto ai meritevoli (quando non al di sopra) certi uomini di potere senza scrupoli - perché non possono avere scrupoli né morale né senso dello Stato quelle personalità che, invece di onorare il mandato ricevuto, compensano la clientela affidando la gestione della cosa pubblica a persone incompetenti e sempre pronte a ricorrere all’autorità dei compari – introdussero nel pubblico impiego i loro ruffiani definendoli pretestuosamente “capaci” e questi, sentendosi protetti, furono più spregiudicati degli irresponsabili nel guazzare in acque infide. Infine arrivarono i Pi Ci, i computers, che, con la scusa di eliminare le cartoffie, soprattutto all’inizio distrassero gli impiegati per via dei frequenti corsi di aggiornamento, e ne esaltarono l’ignoranza e l’ignavia coi programmi predisposti per la correzione(?) degli errori.
Ecco: raccomandati, palude (che giustificò l’intrusione sindacale nella cosa pubblica), leggi apparentemente vessatorie, tecnologia applicata a tutte le branche dell’amministrazione... Ecco, il crepuscolo dei travetti!        
 
 PREFAZIONE
 
Siamo intorno al 1980. Un impiegato si sforza di stabilire la natura del coma in cui è sprofondata la burocrazia, poi stima opportuno affidare ai ricordi l’agonia di quella cosa che, una volta, fu definita la struttura portante dello Stato, considerato come una cosa seria senza riflessi anomali; non che adesso sia un fatto patologico: specialmente se si considera che gli uffici, alquanto tartassati dentro e fuori, “tirano” anche quando barcollano nella procella.
Negli anni 70-80 la burocrazia tradizionale ha subito scossoni (non parliamo del colpo di grazia che le sarà affibbiato con i provvedimenti degli anni ‘90) che preludevano al suo tramonto. Seguiamo Crescenzo quando fissa i ricordi nelle pagine che seguono, riempite in forma diaristica. 
Quel che ricorda, specialmente fino al 1968, è espresso nel dialogare sereno suggerito dalla felice parentesi della provincia (1^ parte), che contrasta alquanto con le riflessioni agrodolci del periodo metropolitano della 2^ e della 3^ parte, riflessioni evidentemente proporzionate all’indice di gradimento della nuova dimensione da parte del protagonista. (continua)