"Il tessuto sbrindellato..." in sei puntate

Ricordiamo che dopo la scomparsa degli Svevi il tentativo più credibile di dare una normativa al nascente Stato meridionale fu operato da Guglielmo I il Normanno (1150- Catalogo dei Baroni). La geografia politica non corrispondeva in tutto al lessico dei territori e spesso quei territori erano… semoventi.
Ricordiamo pure che spesso i pontefici non erano d’accordo sulla proprietà del suolo su cui sarebbe sorto lo Stato (lotta delle investiture): in un primo momento il contrasto fra il papa e l’imperatore si limitò a dialogare sulla facoltà di nominare gli alti prelati da parte dell’imperatore o del papa ma nel 1074 Gregorio VII (Ildebrando di Soana) volle far prevalere la decisione per cui il dominio del mondo spettava alla Chiesa.
Ora inoltriamoci con molta cautela nel groviglio di quei due-tre secoli di cui parlano poche pergamene rinvenute nell’Archivio del Municipio di Cocullo.
 Per addentrarci nel tema evochiamo le seguenti memorie e quindi creiamo una breve cornice spazio-temporale.
Carlo I d’Angiò (1226-1285) era figlio del re di Francia, Luigi VIII di Bianca di Castiglia. Era fratello di Luigi IX detto il Santo, morto durante l’ottava crociata, e divenne conte dei di lui- possedimenti (Provenza, Maine e Angiò). Carlo anticipò il tramonto del casato svevo nella battaglia di Benevento (1266) combattuta fra le sue truppe guelfe e quelle ghibelline di Manfredi di Sicilia, quest’ultimo figlio dell’imperatore Federico II di Svevia e re di Sicilia, a sua volta nipote di Federico Barbarossa, cioè del capo di una dinastia che espresse notevoli personalità, come appunto quella di Federico II, amico di molti letterati, promotore della “scuola siciliana” culla della nascente lingua italiana (infatti egli fu poliglotta e conoscitore anche del volgare dialettale siciliano: è noto che tra i futuri dialetti della lingua italiana emergeranno parecchi lemmi e modi di dire). Costui poi fu omaggiato da Dante Alighieri. Non basta: fu anche cultore della musica e amante della natura e della caccia.
Agli inizi dell’anno 1282 i Siciliani si ribellarono ai dominatori angioini e Carlo II d’Angiò, compresa la difficoltà di frenare la sommossa, considerato anche che Pietro d’Aragona (marito di Costanza figlia di Manfredi) era sbarcato in Sicilia, stimò opportuno, d’accordo con gli avversari, di ridurre un eventuale scontro con un compromesso: i “Vespri Siciliani” causarono la espulsione dalla Sicilia degli Angioini i quali covavano un contrasto conflittuale con gli Aragonesi. La “scaramuccia” si concluse nel 1302 con la pace di Caltabellotta, per cui Federico III d’Aragona ebbe il Regno di Sicilia ma con l’impegno di sposare Eleonora d’Angiò, sorella di Roberto Re di Napoli. Carlo II d’Angiò era stato preso prigioniero e, evitatone il linciaggio grazie all’intervento della regina aragonese, e, prima di essere liberato[1], rinunciò ai suoi diritti sull’isola e su alcuni territori della Calabria che già Pietro aveva invaso. Purtroppo gli spergiuri appartengono ad una razza inestinguibile, specie in quel periodo turbato da intrighi e tradimenti.
Poco tempo dopo Carlo II d’Angiò andò a visitare i luoghi (Piani Palentini) dove il padre aveva vinto inaspettatamente il povero Corradino di Svevia, lo sfortunato ultimo rampollo della sua dinastia, il “biondo e di gentile aspetto”, e dove visitò le magioni fortificate dei Templari (dove restano ancora, a parte i restauri, i ruderi). Durante quel viaggio Carlo II seppe che sulla vicina “montagna santa” (così definita La Maiella dal Petrarca) viveva un eremita che aveva fama di santo ed aveva fatto molti proseliti; veramente al re interessava poco la sfaccettatura religiosa, e pensò di strumentalizzare il frate e di indurre il Sacro Collegio a farlo papa e una volta raggiunto tale scopo chiedere all’ex monaco un documento referenziale per continuare a regnare sulla Sicilia. In parte realizzò questo progetto poiché a Perugia, per sua iniziativa, i pochi cardinali litigiosi che ancora non riuscivano a mettersi d’accordo per chiudere la sede vacante dopo la morte di Nicolò IV furono indotti dal re a scrivere una lettera (firmata anche dal cardinal Benedetto Caetani futuro papa Bonifacio VIII) all’eremita Pietro del Morrone proponendogli il trono di Pietro; il frate accettò ma pretese di essere consacrato pontefice a L’Aquila (29 agosto 1294)[1]. Carlo puntava sulla sufficiente preparazione di un umile religioso, il quale oltretutto non aveva la di lui visione panoramica del mondo allora conosciuto; però quella visione ed una preparazione raffinata l’aveva Bonifacio VIII, il quale, pur sicuro della santità del suo predecessore, gli impedì la … truffa diplomatica. Sicché il re dei Galli dovette prendere atto di aver creato un problema a tutti e due i papi.
Pietro del Morrone era nato nel circondario di Isernia e, compiuti gli studi a Faifoli, si diresse all’abazia di Montecassino che già allora era un “faro di civiltà al mondo”. Evidentemente vi seppe[2] che quasi trecento anni prima era vissuto un monaco benedettino che la pensava come lui in quanto al rigore religioso ed aveva raccolto la tradizione ofidica esistente in un paese della sua regione. Quel monaco nelle estasi non disdegnava la frequentazione delle bisce, cioè della bestia che poi Pietro del Morrone mitizzò in una ode. Tuttavia, mentre la tolleranza religiosa dei regnanti di quel tempo aveva permesso a Domenico di Sora di incanalare nella religione la tradizione profana, questo non fu facile a Pietro perché la evocazione delle scorie pagane dopo tre secoli non favoriva la svolta nell’adeguamento ai tempi e quindi i cristiani ex pagani furono fortemente confusi e turbati.
I Templari, cioè le soldatesche angioine, passando nella nostra zona e poi tornati in patria, erano stati ambigui e confusi e alla S, iniziale degli Spirituali, diedero le sembianze della biscia in molte chiese e cattedrali.
Nel frattempo nella zona Cocullo-Badia (dove Pietro del Morrone aveva fondato la Casa Madre) era scoppiato un piccolo scisma.
Dunque i Templari di Carlo II avevano propalato in Francia la tradizione serpara e perciò non furono meno pasticcioni del loro sovrano, il quale da tempo aveva cercato di ripararsi dalle folate del vento aragonese. Fece molti tentativi: trattati, trattatelli, compromessi, contatti con governanti, con papi, con antipapi, spostamenti di troni ipotizzati e non.  Nella primavera del 1294, come detto, l’Angioino era andato a Perugia per sollecitare i cardinali a nominare un papa e poi nell’estate successiva era salito sulla Maiella, cosa che ora a noi interessa di più, per convincere Pietro del Morrone a tornare alla Casa Madre degli Spirituali per asciugarsi il sudore e prendere le briglie dell’asinello che avrebbe portato a L’Aquila il povero eremita.  (Fine prima puntata)

NOTE

1 -  La leggenda vuole che durante la prigionia Carlo II d’Angiò, sognata la Maddalena, avrebbe da costei avuto il consiglio di seguire un certo percorso per raggiungere la libertà.  Quando successivamente il sovrano arrivò nel centro della penisola eresse chiese e i suoi seguaci le decorarono con raffigurazioni della Maddalena. Nella chiesa cocullese della Madonna delle Grazie esiste un trittico cinquecentesco in cui sono dipinti i santi Antonio abate e Amico oltre alla Maddalena stessa.
2 - Pietro del Morrone ripudiò sempre il fasto e gli agi del Vaticano e, da pontefice, non volle mai andare a Roma.
3 - Ipotesi molto verosimile.