Edizioni online - L'Atelier

Nino Chiocchio, L’alba dei travetti e il crepuscolo dei travetti

 X Capitolo - Neve e motori

Arrivò la stagione fredda. Quando le condizioni atmosferiche glielo permettevano, Crescenzo tornava dai suoi con la macchina, e allora il viaggio gli era gradito perché era vario in quanto gli permetteva, grazie alle ampie digressioni che faceva nell’Italia centrale, di scoprire nuovi paesaggi e cose interessanti. Generalmente, quando non gettava i ponti sulle feste[1], partiva nella tarda mattinata del sabato per tornare domenica a sera. Quella volta ci fu una variante imprevista e malaugurata. Successe sotto il valico del monte di Antrodoco. Era già buio, auspici il tardo pomeriggio invernale e i grossi nuvoloni neri che si accumulavano minacciosi. A mezza costa lo colse la bufera. Alle prime ore del crepuscolo era stato costretto a fermarsi per un lieve incidente meccanico occorso al suo bolide: s’era dovuta cambiare una spazzola, ovalizzata, al motore. Enzo, dopo aver atteso che l’officina aprisse per l’orario pomeridiano, riprese il cammino ch’era già tardi. Prima della vetta era ormai notte e nella nebbia gli parve di scorgere un tenue bagliore: erano fanali accesi, oltre i quali s’intuivano le sagome di altre automobili che arrancavano sul fondo ghiacciato, e che spesso mandavano lampi obliqui perché (erano i più) s’erano arrestati sulla carreggiata quale di traverso e quale adagiato su una fiancata. Si giocava a rimpiattino col catarro di Giove, per Diana! Lassù i fiocchi di neve turbinavano ed il divin genitore dei gentili, nascosto dietro il manto plumbeo di quella notte di tregenda, sommergeva gli uomini e le cose con le sue intemperanze. Non si vedeva più in là di un decimetro: la strada si perdeva nella tenebra in cui si riconosceva a fatica una debole traccia sfumata nella sarabanda dei candidi stracci. Sembrava che quel maledetto vecchio della Mitologia avesse spianato le montagne e che, dopo averle stritolate, le avesse impastate con la neve e ci avesse fatto una calce sporca che gettava agli occhi dei viandanti. Quando si ricominciò a scendere, l’utilitarietta (una FIAT 500), che Peppinella aveva trascinato su per l’erta, riprese a camminare da sola. Crescenzo l’aveva lasciata e, sganciatala dalla “850”, si tuffò quindi nella discesa. Poco più avanti c’era una curva a gomito; ma non la vide perché fu ingannato da un sentiero che - ben delineato dalla neve che aveva trovato rifugio nel suo grembo - si staccava dritto dalla strada nazionale per scendere tramite una ripida scalinata su un paese: era una scorciatoia per i pedoni! Ci fu un’impennata improvvisa e il cavallo d’acciaio, dopo aver roteato su se stesso, andò a sussultare su un pezzo di cunetta per poi issarsi su un ciglio di burrone. Il conducente della piccola FIAT giunse subito dopo. Era allarmato perché da lontano aveva visto scomparire nel vuoto le luci della povera Peppinella. Purtroppo non arrivò in tempo per assistere allo spettacolo che offrì Enzo allorché pian pianino s’era portato sul sedile accanto a quello di guida (questo si affacciava sul burrone), lo aveva aperto con molta cautela e si era lanciato verso alcuni sterpi che costeggiavano la carreggiata. Tutto è bene quel che finisce bene. E poco più tardi la cosa finì a camomilla in un bar di Antrodoco. La vettura non era precipitata in seguito alla scossa provocata dal pilota che si slanciava verso gli sterpi della cunetta: meglio così...; anzi, venne poi rimessa sulla strada da alcuni robusti sabini, i quali poi preferirono bere la grappa. Quando Travetti tornò alla base trovò gente disposta a conferirgli una medaglia di cartone, gente che gli voleva far toccare amuleti antinfortuni come se il poveraccio avesse ereditato qualcosa da quei re medioevali che guarivano dalla scrofola col semplice tocco, gente che saliva in cattedra, che sputava sentenze e che sconsigliava l’attraversamento degli Appennini ammantati di neve. E fra le persone ostili agli Appennini innevati c’era quella zitella pettegola e ruffiana che puzzava e che forse coltivava una inconfessata speranzella... Basta! Poi l’influenza, il Presepe vivente, lo sciopero...  
            Purtroppo, a Chieti, il nostro eroe non scampò dall’influenza che imperversava in tutto l’Ufficio. Era un fastidioso stato febbrile che seccava (o lubrificava, a seconda dei casi) gli sfinteri, intorpidiva le cartilagini ed esaltava la temperatura corporea. Ci si mise pure un Ente che avrebbe dovuto assistere i pubblici dipendenti e che allora pretendeva di somministrare agli statali soltanto le medicine riconosciute dai suoi medici. Febbricitante, Enzo si recò agli uffici di quell’Ente e si lamentò del fatto che lo Stato operava le ritenute sullo stipendio da lui percepito anche al fine di assisterlo; che pagava la pigione senza essere rimborsato da chi lo teneva confinato a Chieti, quasi che costui (lo Stato) sapesse che lui ci stava benissimo: forse era proprio così, ma Enzo lo sapeva solo lui e quest’ultima affermazione fece effetto. Ottenne il rimborso dei medicinali che ispiravano maggior fiducia e che lo rimisero in sesto giusto in tempo per andare a Rivisondoli.
            Partirono con un paio di automobili alla volta di quel paese. Vi si trattennero per qualche giorno ed ebbero modo di assistere alla rappresentazione del Presepe vivente, animato da cristiani e pecore in carne ed ossa. La capanna di Betlemme esiste anche a Rivisondoli. Il mistero (inteso come rappresentazione), che rievoca l’episodio sublime di duemila anni fa, acquista un fascino particolare sulla balza velata dalla cappa della notte, sulla distesa stretta nella morsa del gelo, nelle case disseminate come le bibliche capanne: quel paese dell’Abruzzo aquilano, incastonato nell’ampia valle, quel paese veste l’abito della sacertà ammantata di suggestione. Travetti assisteva attonito al fervore delle opere che precedeva la manifestazione, incurante dell’alito gelido, intirizzito, ma protetto dal tepore della Notte Santa. Lui era uno dei tanti puntini neri disseminati nella grande conca argentata che digradava dolcemente dal grande presepe che è quel piccolo paese. Un lontano, flebile suono di cornamuse diffondeva nella notte, impastata con la distesa bianca, il messaggio di duemila anni fa. Finalmente squillarono le trombe degli angeli, quindi la Capanna si illuminò: l’illuminazione simboleggiava anche l’ardore dei cuori nelle vicende umane. La mattina appresso la comitiva si spostò sulle piste dell’altopiano e sciò per quei pochi giorni che durò la vacanza rivisondolese: purtroppo questa finì presto ed Enzo tornò a tuffarsi nel grigiore dell’ufficio. 
            Alla fine della settimana una splendida giornata gli ricordò che anche gli scioperi potevano essere utili a qualcosa. Il giorno prima era nevicato a iosa, né il tempo era stato clemente in quelli precedenti. Infine, inaspettatamente, un sole radioso s’era affacciato alla balaustra immacolata della Maiella e da quel balcone scoccava dardi d’oro sul ghiaccio scintillante. Dalla finestra Travetti seguì con lo sguardo un collega ritardatario che, il cappello calcato sulla fronte e le scarpe che stritolavano la neve col fondo di para, camminava trafelato verso l’ufficio. Poi tornò a sedere davanti alla scrivania, poco convinto fra quelle carte che puzzavano di polvere e di sudore di antichi impiegati. Giù, in uno scorcio della strada, fra i cornicioni di due vecchie case, la mattina s’era imbellettata con un pezzetto di azzurro turchese. Crescenzo aderì allo sciopero, tornò a casa, calzò gli scarponi e montò gli sci sulla macchina. Quando tornò in città trovò la lettera strappalacrime dei genitori:
            “Mio carissimo figlio, ti ho già detto per telefono che avevo iniziato a scriverti la presente. Sento che stai bene; è ciò che io desidero ardentemente. Cerca di non prender freddo. E, non c’è bisogno di raccomandartelo, sii sempre bravo e buono. Ogni figlio porta nell’ambiente in cui vive l’atmosfera della famiglia in cui è nato ed ha avuto avvio alla vita. Sarebbe per me motivo di grande angoscia pensare che una mia creatura possa deviare dal retto sentiero. Io ho l’orgoglio di essere sicura di voi, perché vi ho dato l’esempio di una vita intemerata e laboriosa. La mia esistenza è trascorsa fra voi nella casa sacra ai miei affetti, che non hanno mai avuto deviazioni, e tra i banchi, dove c’erano i figli dell’anima, che ho guidato con amore materno verso la vita. E’ questa certezza che fa paga l’anima mia e le dà una giovinezza d’energie ch’io non pensavo. Forse è questo il segreto di saper vivere nel mare agitato del mondo, che non ci travolge, non ci opprime, ma che guardiamo sereni dalla riva opposta. Continua a migliorare il tuo domani, ho sognato per te un avvenire sereno. T’aspetto sempre con ansia. Salutami, intanto, la famiglia che ti ospita. Mamma.
            Carissimo figlio, cosa devo dirti di più? Mamma t’ha scritto tutto, tutto quel che sento anch’io perché ho lo stesso cuore. Ti auguro un mondo di bene ed abbiti un forte abbraccio da Papà
PS- PRUDENZA!!!”
            Gli sarà stato perdonato lo sciopero galeotto? Utinam! (Continua)

[1] L’assenza dall’ufficio nei giorni feriali compresi fra due feste.