Edizioni online - L'Atelier

Nino Chiocchio, L’alba dei travetti e il crepuscolo dei travetti

VI Capitolo, Nella fucina burocratica

Erano trascorse varie stagioni dal superamento del periodo di prova[1]. Era una giornata uggiosa dell’autunno inoltrato. Travetti era stanco e, in un’atmosfera di tedio che non lo invogliava al lavoro, pensò di trascorrere il tempo lanciando sulle scrivanie degli amici Lucio e Sandro  dei bigliettini con su scritte le parole iniziali di una canzoncina allora in voga[2]. I due (evidentemente neanche loro erano favoriti dal clima pesante) accettarono lo scambio delle pallette di carta; il primo rispose: “Con fiducia si tira la carretta perché la routine della vita di tutti è un fenomeno relativo e transeunte. Non è importante quello che si fa, ma lo spirito col quale si svolgono le mansioni professionali...”. Lucio commentava le Lettere di San Paolo, era un po’ filosofo, a differenza dell’altro, il quale scrisse una frase che allora sembrò scanzonata, considerata l’età del collega; ma ora che il suo autore ha fatto una carriera brillante, a pensarci bene, quella frase rivelava la stoffa del burocrate: “Quante chiacchiere! Pensate pure a fare un buon Natale, possibilmente in dolce compagnia (ogni riferimento è puramente casuale)!”. Poi Travetti, sforzandosi di far tesoro del monito del filosofo, sbrigò qualche pratica e quindi si mise a passare in ideale rassegna, dinanzi alla scrivania pulita, senza scartoffie, i doni che l’anno prima gli aveva portato la Befana. Perché la bisbetica di quand’era bambino era diventata ormai solo una ricorrenza, ma lui i regali se li scambiava ancora con i cari e quel personaggio non aveva mai cessato di infervorare la sua fantasia. Quanti pensierini, un po’ affettuosi e un po’ “pelosi” erano lievitati intorno a quella vecchia, intabarrata e curva sotto un’enorme gerla, che la favola gentile aveva scolpito nel mondo fantastico dei piccoli? Ignoravano ...o fingevano di ignorare? Andavano a letto presto, la sera. Si infilavano sotto le coltri, mentre i passi furtivi di una fata si confondevano col fischio del vento, si smorzavano poi nel buio e nel silenzio della notte; ma intanto dal sogno era scaturita una figurina esile e svelta che s’infilava nella cappa del camino e sorvolava i comignoli a cavallo di una ramazza. Crescenzo non fu mai dimenticato dalla vecchia col fardello; e quando crebbe ricordò con nostalgia quell’aspetto felice dell’infanzia innocente. E la rivisse allo stesso modo quell’anno, quando Titty, la sorella maggiore, gli donò un quaderno da lui riempito in quarta elementare. Forse lei lo aveva rinvenuto per caso rovistando nell’archivio della scuola dove insegnava e dove il fratello aveva appreso i rudimenti dell’abbecedario. Quel quaderno fu tanto gradito, anche se era ...guerrafondaio fin dalla copertina: vi era raffigurato un tenentino che si ergeva dal grigioverde del fondo, su cui spiccavano un libro ed un moschetto (anno 1942, XX E.F.) che si proiettavano su una sfumatura rossa da cui spuntavano tre cannoni. La prima pagina conteneva un’invocazione a Dio affinché proteggesse i combattenti e propiziasse una vittoria fulgida. Purtroppo questa non venne, anzi poco dopo ci fu una brutta guerra civile; ma il quaderno si salvò con tutte le sue sessanta pagine farcite di personaggi un po’ storici e un po’ esaltati dalla retorica, come Giovan Battista Perasso, Balilla, illustrati nei componimenti ingenui di un bambino che più tardi divenne impiegato, con buona pace del fragore della guerra.
Ma, ahi voglia a seguire l’esortazione del filosofo quando la giornata è uggiosa! E specialmente quando la pioggia diventa neve, la prima neve, poi! Che sedia birbante! Travetti cercava di essere ligio al dovere, ma quella sedia dispettosa si spostava impercettibilmente verso la finestra e lo invitava a schiacciare il naso dietro i vetri e ad assistere alla candida danza dei fiocchi di neve; la precipitazione, ormai solida, ora scendeva elegante e leggiera, ora vorticosa e scomposta in un turbinio che lasciava trasparire appena la visione di tre figure confuse. Eccome se non lo riguardava la tormenta! Lo spettacolo era reso più suggestivo dal gelido vento di tramontana che andava a sbattere sull’imposta col suo sibilo a volte prolungato e prepotente, a volte ovattato. Quindi, calmatosi il vento, su quella morbida coltre bianca vedeva spuntare qualche puntino nero: erano le orme di qualche raro passante che parevano seguire un itinerario fantastico, forse non estraneo alla sua vicenda di travet in una città ospitale, ma pur sempre di adozione... E ricordò con nostalgia i vetri della casa natale, vetri che sembravano lenti enormi filtranti le immaginazioni infantili anche quando il fiato le appannava: bastava schiacciarci sopra il naso ed esercitarvi così una leggera pressione, una pressione proporzionata al peso di un bambino… Intanto sedeva su una sedia che non aveva niente a che fare col cinguettìo degli uccelli che chiacchierano là fuori anche quando sono infreddoliti, dietro i vetri freddi della finestra... Arrotolò una cartaccia, si avviò verso un’altra finestra per detergere i vetri dalla nebulosità degli umori.
 
Sciatori- L’inverno aveva portato tanta neve, anche in città. Si spalò e, specialmente in periferia, la neve si sciolse in rivoli di melma. La montagna, nelle giornate serene, luccicava: s’era coperta col manto bianco che alletta gli sciatori. Ma Lucio e Gennaro, altro funzionario dell’ufficio, non erano sciatori, erano nati nella marina. Con tutto ciò non seppero resistere al fascino della Maiella innevata e si misero in testa che in poco tempo avrebbero imparato a sciare: comprarono qualche manuale sul fai-da-te dello sport bianco. Un bel giorno chiesero a Travetti se sapesse reggersi sulle lunghe e strette tavole che tanti bei disegni fanno sulle piste. L’interpellato rispose che si arrangiava, anche se nei giorni liberi preferiva tornare dai suoi anziché salire in montagna, soprattutto perché lo sport sciistico gli aveva lasciato un brutto ricordo. E raccontò di quel formidabile impatto con l’arbusto, con conseguente capitombolo, che gli era capitato un lustro addietro, mentre sciava fra i primi alberi della Selva del paese, là dove la boscaglia è più rada. Con altri ragazzi stava facendo una specie di slalom sulla neve ghiacciata, su un elemento, cioè, dove già in partenza si riceve una spinta notevole; ad un certo punto aveva perso il controllo degli sci e poi aveva avuto  appena la prontezza di riflessi che gli permise di ...dirigersi verso un alberello più piccolo degli altri. L’urto era stato tremendo e memorabile, di quelli che ti fanno mettere gli sci in soffitta: per fortuna aveva gettato la faccia da un lato; col petto si era avventato violentemente contro il tronco dell’arbusto. Dopo qualche tempo gli avevano riportato degli occhiali la solla montatura ed uno sci. Questo episodio raccontò agli amici, ritenendo che esso potesse spiegare la sua temporanea idiosincrasia per la neve. E in verità in un primo momento fu creduto e giustificato; però dopo qualche settimana il dubbio che Enzo avesse detto una bugia per non ammettere che poteva non saper sciare s’impadronì degli aspiranti sciatori. E questi non ne fecero mistero. Allora Travetti, punto sull’orgoglio, si fece prestare attrezzi e indumenti da colleghi e da amici (era un sabato, e gli riuscì appena di comprare ai magazzini della STANDA un pantalone elasticizzato), e la mattina seguente partirono tutti e tre per la montagna: Gennaro, Lucio e Enzo. Il nostro eroe aveva appena messo piede sulle piste (e che piste! Erano fin troppo comode in confronto dei bruschi dislivelli della campagna del suo paese), che si riaccese in lui la fiamma del vecchio amore: fece alcune discese veloci e s’imbatté quasi sempre negli altri due che armeggiavano goffamente nella neve farinosa. Da quel giorno non fu più punzecchiato e cominciò a prendere lui, lui che non era ancora motorizzato e quindi era costretto a prenotare un posto nella macchina dell’apprendista sciatore anziano (Gennaro), l’iniziativa delle gite sulla neve. (Continua)

 [1] Durava sei mesi: per gli impiegati civili dello Stato c’è ancora?
[2] “Mo’ vène Natale”, che fu parodiata in “Mo’ vène Natale:/ intanto tiriamo la carretta”.