Cocullo Edizioni L'Atelier
19 Ottobre 2025
Nino Chiocchio, L’alba dei travetti e il crepuscolo dei travetti
Parte terza: la città di Chieti
Redazione
Travetti dedicò il primo pomeriggio ad una lunga passeggiata che gli aprì il panorama della città e che gli offrì una larga anticipazione delle impressioni che avrebbe riportato nelle stagioni in cui visse colà.
Chieti è un agglomerato urbano alquanto ridotto rispetto alla estensione della provincia di cui è capoluogo: nel 1962 contava circa cinquantamila abitanti. La città è arrampicata, un po’ pigra e un po’ ridente, sui primi contrafforti sapientemente distribuiti fra il mare Adriatico e il massiccio della Maiella. Dista, per ferrovia, trecentoventisei chilometri da Roma e una diecina da Pescara. In basso, lo scalo ferroviario, alquanto soffocato per il clima afoso, già allora era ricco di industrie e di quel fervore commerciale che caratterizza la vicina città dannunziana; è attraversato dalla Via Tiburtina[1].
Qualcuno definì questo centro la “città della camomilla”: veramente la vita vi si svolgeva serena in una monotonia tutta provinciale; la misura esatta la davano i bravi frati della chiesetta intitolata alla Madre di Dio, i quali, nel 1962, trovavano ancora il tempo e il modo di catechizzare i giovani scapoli sul sesto Comandamento[2].
A San Giustino, patrono della simpatica cittadina che è sede vescovile nonché asilo di seminaristi e di soldati, è dedicata la bella cattedrale. Per tutta la mattina del giorno di festa l’ampia gradinata, su cui s’alza agile il tempio, sfornava[3] miriadi di forosette, le quali, scese al “Pozzetto”[4], si mischiavano lungo il corso coi gruppetti delle amiche uscite dalla chiesa di S.Domenico (luogo pio degli aristocratici e ...degli aspiranti tali) e da quella della Trinità per poi incontrarsi di nuovo ed immergersi insieme, fino all’ora del pranzo, nel via-vai affollato del passeggio: dal Pozzetto a Piazza Trento e Trieste e quindi da Piazza Trento e Trieste al Pozzetto (ma gruppi di giovani si spingevano fino alla bella villa comunale). Nei pomeriggi domenicali (non è che accadesse sempre, bensì a domeniche alterne) l’antico quartiere della “Civitella” era turbato e la vita si scuoteva a causa di un brontolio insolito negli altri giorni festivi. Avveniva quando la locale squadra di calcio giocava sul campo amico. I Chietini conservano gelosamente il loro patrimonio di tradizioni, anche il bagaglio ...pallonaro, che rientra prepotentemente in quello che li tiene ancorati alle cose che si esprimono in tutti gli aspetti della città. Per questo anche i non più giovani “tifavano” per la loro squadra, che, quando incontrava l’”undici” della vicina Pescara - la consorella adriatica, meno ricca di antiche memorie (e per questo ritenuta dai rivali alquanto plebea), ma aperta ai traffici ed ai commerci, caratteristica del centro in espansione -, creava un antagonismo che coinvolgeva addirittura questioni di araldica ed esasperava il campanilismo fra cugini i quali, in fondo, erano racchiusi nella stessa tessera dello splendido mosaico abruzzese.
Particolarmente nei giorni feriali la cittadina sembrava sonnecchiare, sempre arroccata sulla collina, immersa nel torpore appena agitato dal sussurro monotono del fervore della lontana zona industriale; di tanto in tanto la quiete era turbata dall’urlo delle sirene che saliva dallo scalo. Pochi sfaccendati, seduti davanti al “Bar Colombo” o al “Caffè Vittoria”, accompagnavano con lo sguardo qualche raro passante. Verso le sei pomeridiane il corso si andava animando fino a palpitare anche sotto i portici che lo costeggiano, per poi convogliare l’ultimo brusìo verso la deliziosa villa comunale. Implacabile, estenuante, tutta la città continuava a passeggiare così fino all’ora del telegiornale. Quando volevi incontrare qualcuno non dovevi fare altro che attraversare quell’arteria in quei momenti; prima del telegiornale, però: dopo cena era facile che ti imbattessi in qualche forestiero uscito dall’albergo per la passeggiata serale. A tarda sera molti uomini, messi a nanna i piccoli e, possibilmente, le mogli, scendevano a divagarsi a Pescara o a Francavilla o a Pineto: quest’usanza non era da tutti rispettata allorché nel Supercinema si esibiva qualche compagnia di riviste; allora in quel locale capitava di notare l’austero ed insospettato notabile che, dopo aver spedito la moglie a Francavilla (sempre che la signora si fosse fatta “spedire” ...magari con la scusa di tornare a vivere un po’ d’intimità in seno alla famiglia d’origine, lontano dalla suocera), assiso con il cannocchiale appiccicato al naso, ammirava estasiato le curve delle ballerine, lui che non aveva portato la consorte al varietà per tenerla lontana dalle tentazioni...
A parte gli innocui curiosi del Bar “Colombo” e del Caffè “Vittoria”, è onesto convenire - e questo è importante - che i Chietini avevano un cuore d’oro e una ricca vita interiore: basterebbe ascoltare i limpidi canti della loro Terra, che ancora nel ricordo rimbalzano dagli spuntoni rocciosi della Maiella e sulla spuma delle onde adriatiche. Anche Chieti ha la sua “kermesse”; anzi ne ha due. La gente che conserva il gusto della tradizione, la gente che aspetta un anno per celebrare la “sua” festa ed incontrarsi, in quell’occasione, e stringersi attorno al simulacro del Patrono: questa è gente che sa assaporare il gusto della tradizione, che, come è stato scritto, “non morrà mai di freddo”. Le onoranze a S. Giustino duravano tre giorni di giugno e si svolgevano in un’atmosfera gioiosa; invece profondamente mesta e suggestiva è la celebrazione del mistero del Venerdì Santo, la processione di Cristo Morto.
Il palazzo baronale e la “Civitella”- Il lunedì Crescenzo cominciò la prima giornata da impiegato in quella che sarebbe diventata la sua tana di Montparnasse. La sede dell’Ufficio si trovava in un vecchio palazzo baronale (del tempo del Viceregno?) piazzato in mezzo ad un quartiere che sta a Montparnasse come Chieti sta a Parigi, anche per via delle case disordinate abitate da artisti disordinati e imbranati (qui alloggiava un amico, che portò l’epiteto “imbranato” dal Veneto, ma non trovò acquirenti e se lo tenne per sé) e per via delle spezialie delle “Scalelle” nonché di via Paradiso ma anche per le anguste e ciarliere bottegucce di orefici e cartolai (senza parlare del bar dove si vendevano le “seselle delle monache”[5]).
Al lavoro trovò gente in gamba: era organizzato così bene, quell’Ufficio, malgrado l’inospitalità dei locali – ristrutturati in un complesso di stanzoni secolari -, tuttavia dopo l’esperienza teatina Enzo poté imprimere dell’intero ambiente un buon ricordo, compreso l’elemento umano: quando il lavoro è ben articolato pesa molto poco.
Prima del 30 settembre 1962 Crescenzo era stato una sola volta a Chieti, e ci si era trattenuto poco. Non conosceva, quindi, questa graziosa e tranquilla città. Accettò di buon grado l’invito che Lucio, un consigliere reduce da un fresco incidente e ancora “dottore” per Travetti, gli rivolse, e tornò poi a fare lunghe passeggiate per le panoramiche strade della periferia. Forse Lucio, che teneva un braccio ingessato e sorretto da una stecca metallica alla maniera di chi saluta in modo hitleriano, preferiva quei percorsi solitari onde evitare di piazzare l’aggeggio di alluminio sul grugno di qualche passante, come gli era successo una sera mentre usciva dall’Ufficio e percorreva il corso affollato.
Erano i tiepidi pomeriggi della tarda estate adriatica. Una volta Lucio mi spiegò l’etimologia del nome della città (Teate) facendolo derivare dalla parola greca “teàtis”, che significa spettatrice. La qual cosa suggerì al suo interlocutore di accantonare la versione dei sostenitori del toponimo collegato alla dea Teti: e ammirò stupito, anche lui spettatore, le visioni offerte dal balcone marrucino. Si affacciò sul lontano massiccio del Gran Sasso d’Italia, che, osservato di lì, dalla “Civitella”, ha l’aspetto del volto di una creatura che dorme. Fra i monti e la collina di Chieti si stende la Valle della Pescara, fertile nei campi e fiorente nelle industrie; in basso, le officine FIAT. Più oltre, sotto il poggio di San Silvestro (meta di romantici[?] pellegrinaggi), si protendono verso il mare Pescara e, un po’ più giù, Francavilla. Dalla parte opposta Chieti guarda la Maiella. (Continua)
Note
[1] Quando Crescenzo si trasferì nella megalopoli romana non era ancora completata l’autostrada Roma-Pescara e, oggi, la città è trasformata…
[2] In una puntata successiva intitolata “Il precetto” si accennerà ad un episodio che ebbe protagonisti Enzo e il frate confessore.
[3] L’uso dell’imperfetto s’imporrà spesso perché ci si riferisce al periodo compreso fra il 1962 ed il 1968.
[4] “Largo” del centro cittadino.
[5] Squisiti pasticcini, a tre punte, ripieni di crema.

