Edizioni online - L'Atelier

Nino Chiocchio, L’alba dei travetti e il crepuscolo dei travetti

Parte Prima - L'Arrivo

Quando nel lontano 1962 (oggi, su quel tempo, vibra una tonalità da preistoria) Travetti Crescenzo entrò nell’amministrazione pubblica, era ancora diffusa la credenza secondo cui la sistemazione nell’impiego statale fosse gratificante; sì che il signor Travetti pensò di aver risolto il problema esistenziale in modo abbastanza decoroso. Abbandonò le velleità giornalistiche (faceva il cronista e il corrispondente locale di alcuni giornali), che allora offrivano prospettive abbastanza precarie, almeno in quanto a misure previdenziali, e si apprestò a cominciare la nuova attività in un capoluogo di provincia con grande soddisfazione dei suoi cari, specialmente dei genitori, convinti che tale sistemazione fosse decorosa come era ai tempi loro. Si trovò talmente bene nella sede assegnatagli, fino a quando vi restò per sei anni, gli anni della migliore gioventù, anni ruggenti e quindi felici in tutti i sensi (con riguardo anche all’esuberanza ed all’entusiasmo delle prestazioni in ufficio) e in tutti i risvolti offerti ad un giovane di provincia da una provincia che ha montagna (Maiella) e mare (Adriatico); si trovò talmente bene che stimò opportuno affidare alcuni suoi ricordi al diario. Purtroppo l’abitudine degli appunti restò anche dopo che Crescenzo fu trasferito nella megalopoli; e così ebbe modo di rilevare che il suo stato d’animo apparve diverso nelle due sedi... 

L’arrivo - Crescenzo arrivò nella cittadina, dove era stato assegnato, un sabato sera, l’ultimo giorno del settembre 1962, con il treno. Su quella carrozza aveva incontrato una vecchia conoscenza: il controllore che aveva familiarizzato con lui quando il ragazzo andava dal paese alla città più vicina per frequentare il Liceo. “Ma tu non sei Enzo?” “Certo, Giuvà’; io non ti avevo salutato perché avevo il dubbio che non fossi tu: sa’, allora il tuo cappello si ornava di un solo “filetto”[1] ed eri più giovane!”. “Anche per te passano gli anni; almeno io all’età tua non avevo perso i capelli, mentre tu... Ma adesso fammiti bucare il biglietto e dimmi dove vai”, aggiunse, sedendoglisi accanto, dopo aver posato una grossa borsa di pelle sul sedile di fronte. Il ferroviere, come se avesse voluto conferire al dialogo il tono confidenziale dei vecchi tempi, aveva gettato sul borsone il cappello ora a tre filetti e si stava passando una mano sulla fronte quasi a voler rispolverare la memoria sugli episodi accaduti quando prestava servizio come controllore su quella tratta ferroviaria, episodi che avevano avuto per protagonisti gli “studenti della Legione straniera”: così erano stati definiti (da un professore di Enzo) i ragazzi che ogni mattina salivano alle stazioni dei rispettivi paesi per raggiungere la città dove erano le scuole medie e superiori. “Che fa Tonino?” chiese Giovanni dopo una breve pausa, senza curarsi dell’esibizione del biglietto. Tonino era stato un discolo che frequentava la seconda Media inferiore e divertiva gli amici con le sue bravate riuscendo sempre a farla franca; il controllore conosceva il vizietto del monello e s’era messo in testa d’impartirgli una lezione. Il birbante, una volta, aveva lanciato fuori dal finestrino la coppola di un compagno di un paese vicino: questi mise al corrente dell’accaduto il ferroviere; allora il furbacchione, fiutata la reazione, si rifugiò nel gabinetto di una vettura, dove, non sapendo che Giovanni ne possedeva la chiave, si era calate le brache e s’era seduto sulla tazza fingendo di essere occupato nella soddisfazione di un bisogno fisiologico: fidava in certe immunità ...maleodoranti. Purtroppo non fu così: il controllore, impaziente di poter mettere le mani addosso al reo, aprì la porticina e lo agguantò per la collottola trasportandolo di peso in uno scompartimento vicino che, essendo vuoto, nascondeva ad occhi indiscreti la punizione del bricconcello. Ad un certo punto questi cessò di scalciare perché la paura aveva infine prodotto i suoi effetti… Il vendicatore, che aveva cominciato a scaricare manate sui glutei scoperti e vieppiù invitanti, fu costretto a sospendere l’esecuzione e correre a lavarsi le mani! Tonino approfittò del momento di libertà e sgattaiolò pel corridoio reggendosi i calzoni ad una distanza notevole dalle mutande: quella posizione obbligata lo costringeva ad una deambulazione buffa che necessariamente prescindeva da ogni forma di decenza… Allora passò correndo vicino a Enzo, il quale era intento a leggere una novella del Boccaccio: lo fermò e lo aiutò a ricomporre gli indumenti. In quello stesso momento arrivò trafelato Giovanni che lo prese per la collottola e, siccome il treno doveva attendere l’incrocio con un altro, scese con il monello e gli affondò il deretano in mezzo alla neve, poco distante dalla coppola…
“Ricordi, Enzo?”. “Sì che ricordo!” Poco dopo Giovanni salutò l’amico e scese dal treno: gli anni erano passati anche per lui ed ora lo attendevano i nipotini. 
Prima che il convoglio arrivasse a destinazione, Enzo era rimasto col naso appiccicato al vetro del finestrino per rimirare lo spettacolo offerto dalla città appollaiata sul colle che si ergeva sulla ferrovia: il campanile della cattedrale intitolata a San Giustino spiccava sulla circonvallazione della città, ambedue illuminati. Uscì dalla vettura una piccola folla che gli  sembrò poca per una città importante ma troppa per una città di provincia. I viaggiatori defluirono sul piazzale esterno e, nella penombra e in numero consistente, si infilarono su un grosso mezzo di trasporto che assicurava i collegamenti fra la città e lo scalo: il giovane li seguì e andò a sedere in uno dei primi posti, dietro al conducente. Il filobus (che egli ancora non sapeva essere chiamato “Peppinella” dai cittadini d’adozione) lo scaricò all’albergo “Salus”, un albergo pulito, asettico, un albergo sulle cui fondamenta pare che nel progetto sarebbe dovuta sorgere una clinica. Quando, sei anni dopo, Travetti fu trasferito nella sede megalopolitana ospitata in un’altra mancata (?) struttura ospedaliera, si chiese se la sua carriera era nata sotto il segno di un ...arcano patologico; ma non volle essere superstizioso e così il quesito rimase insoluto. Il giorno appresso, dato ch’era domenica e che non conosceva chicchessia, pensò bene di andare a visitare il Museo regionale archeologico, di cui aveva sentito parlare a scuola. Il Museo Archeologico era stato allestito in un decoroso palazzo gentilizio immerso nel verde della villa comunale. Il sole non era ancora alto, ma le ombre della tarda estate allungavano ugualmente le chiome degli alberi sulla facciata bianca della sede del Guerriero di Capestrano, il misterioso e prezioso reperto del VI secolo a.Cr. che, dopo il rinvenimento, avvenuto nel 1934, era stato portato al Museo romano di Valle Giulia ma che il Sovrintendente professor Cianfarani aveva fatto restituire all’Abruzzo proprio in quegli anni. Era giusto che il monumento tornasse alla sua Terra, ora che l’Abruzzo aveva la sua Soprintendenza e che le memorie archeologiche degli Italici non venivano più affidate ad altre regioni. Travetti trascorse quasi tutta la mattinata fra statue, bronzi e pietre “ricamate”. La sede era più ricca di memorie di come era apparsa sui libri, silenziosa e austera. Quando, però, Travetti contrasse amicizie non ci tornò più, salvo allorché vi si recò per ascoltare dei concerti di musica sinfonica nell’aula magna con le persone che intanto aveva conosciuto e che lo impegnarono sporadicamente in questa attività culturale. La prima conoscenza era stata il marito di una collega della sorella maggiore, il quale prestava servizio da tempo in quella città: l’uccellino lo aveva avvertito dell’arrivo del giovane, nel cui ufficio egli si presentò ed offrì la sua collaborazione. Travetti accettò con entusiasmo, e quegli non solo gli fece conoscere il centro storico ma gli procurò anche un’ottima pensione a casa di un suo collega, una pensione decorosa, troppo decorosa  perché Crescenzo ci potesse restare anche quando ebbe la possibilità di rincasare nelle ore antelucane. I padroni di casa erano tanto buoni, tanto comprensivi; ma Travetti capì ugualmente che sarebbe stato opportuno togliere il disturbo. Nei primi tempi s’era sfogato con un violino che aveva comprato per pochi soldi a Porta Portese: l’aveva comprato in una delle frequenti puntatine al famoso mercato romano (ancora non aveva “legato” bene con i nuovi amici e tornava dai suoi, nella megalopoli, almeno due volte al mese) quando, in una domenica piovigginosa, s’imbatté in un rigattiere che, fra le chincaglierie, teneva esposto all’umido e alla pioggia un violino di poco valore, ma pur sempre un violino. Crescenzo stigmatizzò il fatto che lo strumento non era coperto e l’altro glielo offrì per novantamila lire; il nostro non accettò replicando che ne possedeva già uno, e migliore; però tornò ad insistere che il violino fosse messo in un posto più riparato. In verità il bancarellaro non ne aveva, di posti riparati: per lui l’unica possibilità di riparare lo strumento era quella di venderlo. Perciò tornò alla carica ridimensionando il prezzo. Tira e molla ... alla fine il giovane comprò il violino per tremilacinquecento lire, rinunciando alle corde e alla custodia, che fra l’altro erano in condizioni più che precarie. (Continua)

Note
[1] Segno distintivo nella gerarchia del personale viaggiante delle Ferrovie che poi diede a Travetti l’idea per contraddistinguere i funzionari boriosi che si davano importanza.