COGESTIONE TRA IMPRESA E LAVORO
di Felice Gentile
L’amministratore delegato della Fiat (o meglio delle Fiat) aveva detto di voler continuare a produrre automobili in Italia a patto che i
lavoratori sacrificassero i loro diritti acquisiti.
In caso i lavoratori non avessero accettato la proposta aziendale avrebbe
portato “bagagli e bagatelle” in Canada ( l’esito del referendum del 13-14 gennaio è stato favorevole alla proposta Aziendale). Altri imprenditori hanno delocalizate le proprie fabbriche o addirittura chiuse le aziende senza nessuna
apparentemente valida giustificazione e senza che nessuna protesta sindacale o
politica sia riuscita a riportarla in vita. Nell’Aquilano e nella Valle Peligna siamo stati testimoni di numerosi esempi di casi del genere, buon
ultimo il caso della Coca Cola di Corfinio.
Queste procedure unilaterali da parte degli imprenditore mi hanno creato da sempre un senso di repulsione.
Quando frequentavo l’Istituto De Nino di Sulmona il prof. Masciangioli, insegnante di economia di estrazione
liberale, mi diceva che per avviare un ‘impresa era necessario il Capitale. Questo costituisce la base materiale,
strutturale e finanziaria di una qualsiasi attività. Per mettere in opera il Capitale, però, e per renderlo proficuo è necessario il Lavoro. Il Capitale ed il Lavoro sono fattori paritari della produzione. Ed a questo assunto era
arrivato già ai tempi di Roma repubblicano Menemio Agrippa con il discorso alla plebe in rivolta.
Ora se questo è vero alla nascita di una azienda, non lo è sempre durante la gestione, non lo è mai alla chiusura. Poniamoci una domanda: In caso l’impresa vada male el’azienda chiuda chi ci perde di più il detentore del fattore Capitale o i detentori del fattore Lavoro?
Appare evidente che l’imprenditore, che più delle volte è responsabile del cattivo andamento dell’impresa o della sola delocalizzazione dello stabilimento, crea una tutela preventiva dei propri interessi. I lavoratori, nonostante quello che qualcono vuol far credere, sono incolpevoli e spesso inconsapevoli di cattiva gestione e nel momento del “default” si ritrovano da un momento all’altro senza alcun reddito.
Questo perché fino ad ora in Italia i detentori del fattore paritario Lavoro non hanno alcuna partecipazione e nessun controllo alla gestione dell’impresa, se si esclude la velleitaria (purtroppo nelle diverse situazioni di cui sono a conoscenza è risultata tale) lotta sindacale. Tra l’altro in diverse occasioni alcuni sindacati, o meglio alcuni sindacalisti, hanno
rinunciato alla lotta ed hanno accettato il ricatto padronale del “o mangi sta minestra o salti dalla finestra”.
Io credo che sia impellente la ricerca di uno strumento che permetta ai
lavoratori la partecipazione alla gestione dell’impresa ed il controllo dei risultati aziendali. La creazione di un tale
strumento sarebbe, tra l’altro, una norma di attuazione della Costituzione repubblicana.
La nostra bella Carta Costituzionale recita all’articolo 46:
“ Ai fini dell’evoluzione economica e sociale del lavoro ed in armonia dell’esigenze della produzione la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla
gestione dell’azienda”.
E’ notorio che la nostra Costituzione è nata dall’incontro del pensiero cattolico con quello laico-socialista. Ebbene il dettato dell’articolo 46, come del resto il concetto della proprietà privata limitata dall’interesse sociale, viene mutuato dalla dottrina della Chiesa.
La compartecipazione alla gestione dell’impresa è proclamata nell’Enciclica “ Quadrogesimo anno” di papa Pio XI del 15 maggio 1931, Papa Ratti con questa enciclica volle commerare e rafforzare il pensiero espresso nella “ Rerum novarum” di Leone X, ovvero il capisaldo della politica sociale della Chiesa.
A mio parere la partecipazione dei lavoratori alla gestione di alcune realtà imprenditoriale appare, oggo più di ieri, lo strumento valido per evitare arbitri, ed a volte anche rischi di incompetenza da parte dei “ padroni”.
E di questo pare abbiano preso coscienza i nostri attuali rappresentanti in Parlamento. Infatti in Senato sono stati presentati tre progetti di legge in
materia, ma anche nelle precedenti legislature vi era stata qualche proposta
analoga.
Sia la mancata approvazione delle proposte precedenti, sia gli ostacoli posti all’iter dell’attuali sono causati dalle lobbies delle due parti.
E’ evidente che gli imprenditori preferiscono non aver I’intromissione di alcun genere nella gestione delle loro aziende.
I sindacati, che rappresentano i lavoratori, non vogliono che cogestione
comporti anche la compartecipazione ai risultati aziendali. In effetti il reddito dei lavoratori è dato dal salario. Il salario dipende dalla contrattazione nazionale e non dai risultati dell’azienda. Se il reddito dei lavoratori fosse legato, anche parzialmente, al risultato potrebbe diminuire.
Per vedere come funziona la Cogestione ci richiamiamo al sistema tedesco che
nasce nel 1976.
In Germania l’imprese oltre al fine di massimalizzare i profitti si pongono l’obbligo di curare gli interessi dei creditori e dei lavoratori.
La difesa di questi interessi, apparentemente contrapposti, nelle aziende con più di 200 dipendenti, è tutelata da due organismi: Il consiglio di gestione e il consiglio di sorveglianza.
Il consiglio di gestione è composto dai managers ed è quello che dirige, avendone le capacità tecniche, l’azienda-
Il consiglio di sorveglianza è composto in modo paritario dai rappresentanti dei dirigenti e dai
rappresentanti dei lavoratori. Questo organo decide le strategie, approva i bilanci e controlla i dirigenti.
Appare evidente che la funzione del “ soggetto economico”, presa in senso lato, si sdoppia ed è in carico dei due organi.
In altri Paesi la cogestione è disciplinata in modo diverso,per esempio negli Usa ai lavoratori vengono distribuite azioni societarie e per questo essi possono partecipare all’Assemblea dei Soci.
In Italia, in assenza di norme legislative ed in virtù di contratti sindacali, vi è un unico esempio significativo di cogestione. Nella Banca Popolare di Milano i dipendenti eleggono il Presidente e l’amministratore delegato, quindi esplicano un controllo politico. Guarda caso la Banca Popolare.
È un impresa legata al sistema cooperativo cattolico.
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