Se le ronde di oggi fanno andare con il pensiero allo squadrismo fascista, bisogna subito dire che
non sono la stessa cosa. Un aspetto in comune tuttavia lo hanno. Ambedue hanno
comportato e comportano un trasferimento a privati cittadini di competenze,
quali la tutela dell’ordine pubblico, che dovrebbero essere esclusive dello stato. Una migliore
conoscenza di quel fenomeno tristissimo della storia d’Italia, con i tempi che corrono, può, forse, servire a guardarci da possibili degenerazioni. L’Abruzzo non fu, come solitamente si ritiene, un’isola felice. Nel corso del 1922, nell’intera regione, come in tutt’Italia, si scatenò una serie crescente di violenze da parte dei fascisti. Accoltellamenti,
uccisioni, occupazione a mano armata di paesi, attacchi alle camere del lavoro,
attentati ai tralicci. Ma la ferocia peggiore si manifestò a Sulmona dove non ci si limitò ad uccidere, ma si infierì sulla vittima, fino a rimuovere, d’ordine del podestà, la lapide dalla tomba, a profanare la tomba stessa e disperdere il corpo, sottraendolo alla pietà della moglie e dei figli, violando quella sacralità dei morti conosciuta dai tempi più arcaici. Una storia ormai caduta nel più totale oblio in città e di cui resta una scarna documentazione. Francesco Pantaleo era un sarto di 33
anni, sposato, con figli, un onesto lavoratore. Aveva un solo torto, era
socialista. Il 2 agosto del 1922, sull’imbrunire, dopo una passeggiata in campagna con gli amici, passava vicino alla “Fontana del Vecchio”, dove sostava un gruppo di fascisti in camicia nera. Li guidava un giovane
barone, Domenico Tabassi, già noto per la sua rissosità e violenza. Pendeva, infatti, nei suoi confronti un processo per reati, si
legge nella sentenza del 4 agosto 1923, “di lesioni e sparo d’arma in luogo abitato” e di “porto d’arma senza licenza”, consumati in stato di “ubriachezza volontaria” durante una partita a carte in un caffè cittadino, per i quali verrà condannato in prima istanza a sei mesi e giorni tre di reclusione, condonati in
mesi tre e poi amnistiati dal regime fascista. Il settimanale “La riscossa d’Abruzzo”, del 20 maggio ’22, precisa che sparò due colpi di revolver, “uno contro l’avversario col quale era venuto a diverbio, ed uno contro un carabiniere che si era avvicinato per compiere il suo dovere”, e denuncia il trattamento compiacente delle autorità: ”Non era munito di porto d’arma, né l’arma era stata denunciata. Dopo venti ore dall’arresto è stato scarcerato!” Riferisce Gisfrido Venzo su “Abruzzo nuovo”, del 1-15 agosto 1966, che secondo un testimone oculare da lui intervistato, il
pretesto per l’aggressione a Pantaleo sarebbe stata una banale cravatta a farfalla portata
dalla vittima. Il barone brandendo un pugnale gli si scagliava contro e glielo
conficcava nel fianco. Grondando sangue la vittima si avvia verso l’ospedale, allora presso il palazzo dell’Annunziata. Vi muore qualche ora dopo. “La riscossa d’Abruzzo”, del 12
|
|
agosto ’22, nel dare notizia di uno sciopero, lamenta che ”l’unico incidente è stato l’assassinio del sarto Francesco Pantaleo, ex combattente e socialista, pugnalato
dal fascista Domenico Tabassi fu Annibale. Il fascista che è stato tante volte protetto dalla P.S. è latitante. Al povero ucciso furono persino proibiti i funerali, e la pubblica opinione ne è rimasta indignatissima”. I carabinieri, infatti, invece di acciuffare l’assassino, si presentarono in ospedale per arrestare la vittima, mentre soldati
e carabinieri pattugliavano in assetto di guerra il rione dove Pantaleo
abitava. Ma la persecuzione post mortem era solo all’inizio. Con le tenebre si doveva rappresentare una scena barbarica. Verso le due
di notte, racconta ancora Venzo, una squadraccia fascista, minacciando il
guardiano dell’obitorio, si impadroniva della salma e la trasportava al cimitero al canto di
inni turpi e osceni. Divenuto tacitamente martire dell’antifascismo, cominciarono a comparire sulla sua tomba mazzi di garofani rossi,
che i fascisti, ormai al potere, si affrettavano a togliere e buttare. Si arrivò al punto che undici anni dopo, il 24 marzo 1933, il podestà, Guido Bellei, unanimemente considerato il più illuminato degli amministratori del ventennio, emanò una vergognosa ordinanza. Prendendo a pretesto la mancata richiesta di
autorizzazione, faceva rimuovere la lapide dalla tomba, sostenendo che non
poteva più “tollerarsi un simile sconcio” che “suonava offesa ai fascisti”. Un puro pretesto, perché l’epigrafe accennava alla morte per ”mano assassina”, senza altre specificazioni. Ma la persecuzione nei confronti dei resti del
sarto socialista non era ancora finita. Durante la guerra la salma fu trafugata. E non si è mai saputo dove sia stata gettata. Scomparsa. Un mistero. I parenti non
riescono ancora a rimarginare quell’antica ferita, quell’infamia indicibile. Solo una piccola consolazione. Il Municipio, nell’aprile del 1945, provvide a dedicare a Francesco Pantaleo la via già denominata Posta Vecchia, con una comune cerimonia che dedicava altre strade ai
grandi dell’antifascismo, da Tresca a Gramsci, Matteotti, Don Minzoni, Roosevelt, e a tanti
altri, rivoluzionando la toponomastica cittadina. Il barone assassino non ha
passato in galera nemmeno un giorno. Amnistiato, con sentenza del 27 dicembre
1922 della Corte d’Appello de L’Aquila, per avere commesso il reato di omicidio “per un fine nazionale immediato e mediato e non già per motivi esclusivamente personali”. Ma, fu un vero omicidio? A giudizio della Corte, la morte “non sarebbe sopravvenuta senza il concorso di condizioni preesistenti ignote ad
esso Tabassi”. Durante il regime ebbe un impiego al Comune di Sulmona, che conservò nonostante la Commissione di epurazione. Processato di nuovo nel 1947,
condannato, fu nuovamente amnistiato. |