Gli altipiani d’Abruzzo - da quelli “Maggiori”
di Rivisondoli-Palena, di Ovindoli-Rocca di Mezzo a
quelli di Navelli - sono tutti straordinariamente
belli. Se si interrompe la corsa frenetica con il tempo
e ci si ferma ad ammirare, lo spirito si dilata
ad abbracciare sereno grandi prati verdi, rari
casolari, borghi arroccati, umili chiese e
antichi castelli svuotati testimoni di
feudalità rupestre.
I nostri altipiani hanno in comune
la vastità degli spazi, delimitati da colline e
montagne, e il miracolo dell’armonia di natura e
storia. La bellezza della natura si riflette e si
esalta nella pietra squadrata dei borghi - tutti
raccolti, come vuole l’iconografia religiosa
popolare, sul palmo della mano del santo protettore - e
delle chiese e cappelle disseminate fra i campi
apparentemente senza logica. Solo apparentemente,
perchè quelle chiese, una volta corredate
da costruzioni minori, erano luoghi di sosta, di
ristoro spirituale e ricovero per i pastori che
con le loro greggi transumavano per e dalle Puglie. Un
esercito di animali, uomini, carri, cani che per lunghi
millenni, dall’età del bronzo attraverso
la romanità e il medioevo fino alla
metà del secolo scorso, hanno costituito
quell’economia pastorale che ha permesso ai
nostri antenati di vivere e tramandare una
civiltà di amore per la natura e di gratitudine
per il suo eternamente rinnovato dono della bellezza.
L’altopiano di Navelli
è uno di questi straordinari luoghi. Un gioco di
grandi spazi e di tacite antiche presenze. Distese di
verde abitato da mandorli,
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bianchi e rosa a primavera. Tutto
intorno, corone di monti e antichi castelli e in alto il
Gran Sasso. Lungo la strada, una volta ”erbal fiume
silente” della transumanza, le bellissime povere
chiese tratturali, i resti preziosi della romana Peltuinum,
il romanico ispirato di Bominaco. E’ l’ultima
terra dello zafferano. Vi regnava in tempi mitici il
misterioso Guerriero di Capestrano dal grande cappello. Un
luogo da conservare come una reliquia.
Non era sfuggito a Vittorio Sgarbi,
che nel suo libro indignato “Un paese sfigurato.
Viaggio attraverso gli scempi d’Italia”,
proprio dalla copertina, gridava allo scandalo
riproducendo la chiesa tratturale di Santa Maria delle
Grazie sfregiata dallo scostumato guard rail che
corre lungo la bella facciata rinascimentale
deliziosamente ornata di un gotico rosone. Un
oltraggio, ma un niente rispetto agli attuali lavori in
corso. Occorre, dicono, velocizzare il traffico della
statale Popoli-L’Aquila. E si può
comprendere, anche se si tratta di una delle più
tranquille strade della regione. Ma è
inspiegabile, se non come una violenza, un’opera
deliberatamente barbarica, quello sconvolgimento
dell’altopiano, quell’orrendo maledetto
rigurgito di asfalto e cemento per monumentali
sottopassi, soprapassi e svincoli per
l’accesso non a megalopoli ma a deliziosi
paesi spopolati.
Si vuole trasferire
sull’altopiano un errato concetto di
modernità, di progresso che cancella i
segni del tempo, le tracce della storia, lo spirito
originario dei luoghi. Dal dopoguerra questo delirio ha
sfigurato le pianure e i
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centri urbani. Una cementificazione selvaggia e diffusa ha
creato un mondo senza continuità di forme,
tradizioni, memorie. Senza bellezza, senza identità.
La civiltà contadina e
pastorale è in via di estinzione. Nessuno vuole
chiudersi di fronte all’irrefrenabile esigenza
della velocità. Ma questa si può
conseguire semplicemente con strade più larghe e
dal fondo levigato e ben tenuto. Sull’altare del
superfluo e del sovrabbondante si distrugge
il semplice e il sobrio che è la misura della
civiltà delle montagne, il suo modo
rispettoso di rapportarsi alla natura come espressione
del divino.
Deve essere finalmente chiaro che
il paesaggio con i suoi monumenti definisce
un’identità da salvaguardare e da
difendere, non un ostacolo da abbattere o una risorsa
da sfruttare in modo improprio. Si deve gridare dai
tetti, alto e forte, il principio
dell’intangibilità del patrimonio
ambientale ed artistico e denunciare il reato di
illecito estetico. La bellezza è di tutti.
Nessun amministratore può arrogarsi il diritto,
per una delega data una volta, di scippare la
collettività del suo patrimonio di bellezza
pervenutole da un lungo succedersi di generazioni.
La Val di Susa è
tremendamente lontana. La distruzione continua. Ai
nostri figli, ai nostri nipoti non rimarrà
nemmeno il ricordo di quelle atmosfere sospese, di quel
mondo incantato. Avanti con le grandi opere, con i
colossali tappeti di bitume per le sognate masse di
turisti in visita a cosa, se non alle stesse presunte
grandi opere?
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